













Lo slogan che FFF ha deciso di condividere per la giornata di oggi nelle piazze d’Italia e di tutto il mondo è “no more empty promises” – traducendo, basta false/vuote promesse. È una frase che ripetiamo da tempo, perché da troppo tempo ci sentiamo presi in giro da istituzioni e organi di potere che dibattono, discutono, si incontrano per poi mantenere le stesse insane abitudini. Emblematico il caso degli accordi di Parigi del 2015 – ormai 6 anni fa – non vincolante e ad oggi non rispettato, e di fatto non molto diverso da un foglio per fare un aeroplanino di carta. Tuttavia, negli ultimi mesi la necessità di ripetere questo concetto si è fatta sempre più forte perché a questo giro di boa di promesse se ne stanno facendo molte, ma le buone intenzioni non bastano più, è necessario agire.
A breve il nostro paese dovrà presentare il Next Generation EU – chiamato in Italia Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – stabilendo le modalità di utilizzo dei 209 miliardi stanziati dall’Unione Europea per la ripartenza post-covid. Un’occasione preziosa per dare vita ad un radicale rinnovamento del sistema tutto e ad una reale transizione ecologica ed energetica. Occasione che può tuttavia trasformarsi in fallimento annunciato se muove da premesse sbagliate.
In primo luogo, questo piano di rinnovamento non deve essere concepito come figlio della sola pandemia: il coronavirus ha amplificato e potenziato esponenzialmente un bisogno di riconversione ecologica e cambiamento sistemico che avrebbe dovuto essere percepito come necessario già da prima. Non possiamo accettare che la ripresa diventi il riprendere in mano le redini dello stesso mondo, profondamente ingiusto, che abitavamo prima.
In secondo luogo, non possiamo ignorare il fatto che diversi punti contenuti nel piano del Next Generation EU riguardino problemi che in tempi di pandemia hanno raggiunto picchi estremi di gravità e che finora non hanno trovato risposte nel mondo politico.
La questione di genere: in Italia, sul totale dei licenziamenti in tempi di covid, il 98% è di donne.
La questione giovanile: dopo un anno, scuole e università sono nuovamente chiuse; non possiamo dimenticarci di queste aule vuote e del vuoto istituzionale che le circonda e che non possiamo non sentire sulle spalle in questa giornata di sciopero.
La questione della sanità: le enormi disparità di accesso al vaccino che si prospettano nei prossimi mesi – ed anni – non sembrano suscitare grandi preoccupazioni e noi tutti conosciamo bene le enormi problematiche legate alla sanità pubblica in Italia che il covid ha impietosamente scoperchiato.
Infine, veniamo alla promessa che può rivelarsi più vuota di tutte: la transizione ecologica.
Transizione non significa mettere un mantello verde alle vecchie politiche economiche consumistiche e inquinanti sperando che nessuno scosti il velo.
Transizione significa dire no al fossile, dal petrolio fino all’idrogeno prodotto a sua volta da fonti fossili. Il metano non è la transizione che chiediamo, perché non ne abbiamo il tempo: tuttavia, sembra di diverso avviso il neoministro al neoministero della transizione ecologica Cingolani. Transizione significa prendere atto di un necessario cambiamento del mondo del lavoro, strutturale e sostenuto dalle forze sindacali a tutela dei lavoratori stessi: dobbiamo sfatare il mito che l’ambientalismo ruba il lavoro. Transizione significa un sistema produttivo che non porti mai più al paradossale ricatto che costringe le persone a scegliere fra salute e lavoro e che, purtroppo, oggi c’è ancora. Transizione significa pensare a una società che non cresca sull’accumulo, sul consumo, sullo scarto ma sappia mettere in circolo. E se parliamo di economia circolare, è evidente che non possiamo parlare di capitalismo.
Quest’anno l’Italia presiederà il G20, che si terrà in luglio a Napoli, e ospiterà a Milano la pre-COP 26, in vista della conferenza vera e propria che si terrà a Glasgow.
Vorremmo che i punti chiave di questi incontri fossero quelli della campagna ritorno al futuro lanciata da FFF Italia qualche mese fa e che ben descrivono gli obiettivi che dobbiamo porci se il futuro è la vera direzione del nostro sguardo.
1. Rilanciare l’economia investendo nella riconversione ecologica
2. Riaffermare il ruolo pubblico dell’economia
3. Realizzare la giustizia climatica e sociale
4. Ripensare il sistema agroalimentare e dei consumi
5. Tutelare la salute, i territori e le comunità
6. Promuovere la democrazia, l’istruzione e la ricerca
7. Costruire l’Europa della riconversione e dei popoli
La società DOMUS ing&arch, con sede a Seriate, è incaricata del progetto di edificazione di un’area di 100mila metri quadrati nel comune di Calcio. Se realizzato, questo nuovo polo logistico sarà il terzo costruito nel comune di Calcio dalla inaugurazione della BreBeMi, il ventiduesimo nell’area sudorientale della Provincia.
Sempre la DOMUS in seguito, come da regolamento, sottopone il progetto alla Provincia di Bergamo, responsabile della Valutazione di Impatto Ambientale.
Nei mesi successivi, accade un fatto difficile da ignorare, una interessante coincidenza: la stessa DOMUS regala al comune di Calcinate un pick-up del valore di 10mila euro.Forse è un caso che il sindaco di Calcinate, dott. Gianfranco Gafforelli, sia anche il Presidente della Provincia di Bergamo; forse è un caso che la segretaria comunale, dott.ssa Immacolata Gravallese, sia anche la segretaria provinciale e la responsabile della Prevenzione della corruzione e della trasparenza.
Forse è altrettanto casuale il fatto che, dopo il gentile omaggio ricevuto dal comune di Calcinate, la Provincia di Bergamo, tramite il funzionario delegato dal presidente, deliberi che il progetto della DOMUS ing&arch non necessita di essere oggetto della Valutazione di Impatto Ambientale.
Coincidenze che, se anche rimanessero tali, non cancellano un fatto certo: la valutazione di impatto ambientale per il polo logistico della DOMUS ing&arch non si farà.
È inaccettabile assistere in silenzio alle nostre istituzioni – questa volta è il turno della Provincia, ma chi sarà il prossimo? – che non impediscono lo scempio del territorio che dovrebbero invece tutelare in nome di un profitto che sa vedere solo nel cemento il proprio futuro.Ma questo non è il nostro futuro. Per questo continueremo a monitorare ciò che accade intorno a noi e a pretendere un cambio di passo da chi ci governa senza che ci sia più spazio per passaggi torbidi, modelli di sviluppo malati, ingordi e pericolosi, che sono solo alcune delle cause alla base della crisi climatica in cui ci troviamo.
È una palude da cui vogliamo uscire e anche per questo il 19 marzo saremo ancora una volta nelle piazze di tutta Italia per far sentire la nostra voce nella Giornata Globale di Azione per il Clima. Chi ha distrutto e sta devastando oggi il pianeta ha la responsabilità di risolvere, ora, la crisi climatica: le false promesse non bastano più.
Il consumo di suolo è una pedina chiave in questa battaglia e purtroppo la bassa bergamasca è diventata da tempo la scacchiera di questa partita. Per questo condividiamo la petizione per fermare il consumo di suolo nella Bassa Bergamasca lanciata dalla Consulta delle Associazioni di Romano di Lombardia, disponibile all’indirizzo http://chng.it/BK9GfjqLcp.
A fine dicembre l’amministrazione comunale di Bergamo ha annunciato, mediante comunicato alla stampa locale, l’apertura di cinque anni di cantiere nell’area del cosiddetto Parco Ovest 2, finalizzati alla realizzazione di una “Smart City”, con l’edificazione di circa 70 abitazioni, una RSA, un hotel, una struttura commerciale, negozi e diversi lotti di parcheggio (articoli su Eco di Bergamo del 19 e 20 dicembre). Il Parco Ovest 2 è un’area verde compresa fra via Moroni, l’asse interurbano e la ferrovia, la quale la separa dall’adiacente Parco Ovest o area exGres che si estende fra S. Tommaso e Colognola. È un’area che connette il parco dei Colli al Parco Agricolo situato a sud della città, e che presenta una ricca biodiversità in termini di flora, specie animali e uccelli, anche rare e protette.
Tra il 2011 e il 2012, nell’ambito di un accordo fra Legambiente e il Comune di Bergamo, l’area Parco Ovest compresa tra la ferrovia, la superstrada e la via San Bernardino è stata piantumata con 4000 alberi. Anche per questa parte del Parco sono previsti o in via di attuazione diversi interventi edilizi. Associazioni di quartiere e singoli cittadini, fra i quali il parroco del Villaggio degli Sposi e un ricercatore al quale il comune di Bergamo aveva affidato lo studio della flora urbana, hanno prontamente preso pubblicamente parola per chiedere tutela dell’area e trasparenza da parte del Comune sulla progettualità che la riguarda e coinvolgimento delle realtà del territorio nel processo decisionale.
Il consiglio comunale di Bergamo ha inoltre approvato, nel luglio del 2019, una Dichiarazione di Emergenza Climatica, con la quale ha impegnato la giunta ad aderire alla “Dichiarazione per l’adattamento climatico delle Green City” in vista della seconda Conferenza Nazionale delle Green City del 16 luglio 2019. Tale dichiarazione stabilisce (punto 7) che “è necessario fermare l’impermeabilizzazione e il consumo di nuovo suolo”.
L’assessore Valesini (riqualificazione urbana e urbanistica) ha per conto del comune comunicato alle reti di quartiere la sua disponibilità ad un incontro informativo e ad un confronto con i quartieri interessati.
Come Fridays For Future Bergamo uniamo la nostra voce a quella di tanti cittadini e cittadine: il consumo di suolo si deve arrestare e le strategie del Comune di Bergamo devono essere realmente trasparenti e partecipate. Parco Ovest deve rimanere una delle aree verdi rimaste in città, che negli anni era stata individuata come possibile polmone in un territorio cementificato e ipersfruttato.
Inoltre bisognerebbe ragionare con una visione di insieme: la Cintura Verde è molto più di un sistema di parchi pubblici. Proviamo in poche righe a spiegare cosa è e ha sottolinearne l’importanza. Avvolge da est a ovest la mezzaluna meridionale del corpo urbano andandosi a saldare ad est con il colle Canto e la Maresana, ad ovest con il promontorio della Benaglia e i Colli di Città Alta.
Essa è un corridoio ecologico già esistente, che collega il Parco dei Colli e la pianura agricola della provincia, cuneo naturale di penetrazione nella città e fascia di continuità ecologica con le Prealpi Orobie. La Cintura Verde, con le sue aziende agricole urbane e il suo serbatoio di flora e fauna selvatiche, è l’elemento di congiunzione tra campagna e città: scorcio su una altra Bergamo possibile basata sull’integrazione ecologica piuttosto che sul consumo della natura.
La Cintura Verde non è perciò riducibile a una questione di qualità del verde per il tempo libero, laddove il tema dell’agricoltura urbana si collega a quello della sicurezza alimentare, della salute pubblica e della giustizia ambientale, e dall’estensione delle connessioni ecologiche in città dipende la preservazione della biodiversità e il miglioramento dell’aria nel cuore della regione più inquinata dell’Unione Europea.
Bergamo, 14 gennaio 2021
Il gruppo Fridays For Future Bergamo
Il Black Friday è quel terzo venerdì del mese di novembre, in cui le aziende scontano i loro prodotti per spingere i consumatori ad approfittarne per fare acquisti, soprattutto in vista delle sempre più vicine vacanze natalizie. Curioso è che ricorre proprio il giorno seguente al Thanksgiving, ovvero la festa del ringraziamento, in cui gli americani rendono grazie per quello che hanno avuto durante l’anno, come la famiglia, la salute e gli affetti, ma il giorno seguente molti di loro si ritrovano nei supermercati a fare a botte per accaparrarsi il televisore più scontato.
Durante questa giornata, molti consumatori finiscono per acquistare prodotti di cui non hanno bisogno solo perché hanno un prezzo più basso del solito e solo perché questi sconti durano per poco tempo, generando una falsa percezione di urgenza e occasione da non perdere. Questa pratica ha dei risvolti negativi soprattutto su tre diversi fronti: ambiente, lavoratori dipendenti e portafoglio.
Dal punto di vista ambientale, questa pratica è molto dannosa perché spinge a un consumismo sfrenato di oggetti che si potrebbe fare a meno di acquistare e che quindi hanno avuto inutilmente un impatto ambientale per essere prodotti, e che avranno un altrettanto impatto negativo per essere smaltiti. Inoltre, in questa giornata schizzano alle stelle le emissioni di gas serra per la distribuzione e la consegna dei prodotti, senza contare che in questo periodo aumentano anche i resi dovuti agli acquisti impulsivi: il reso è sinonimo di spreco in termini di trasporto, imballaggio e spesso per la merce stessa che non è più vendibile. Questo sistema di produzione grava anche sui lavoratori dipendenti, che si dovranno sobbarcare un carico di lavoro maggiore e gli introiti generati dalle maggiori vendite non andranno comunque nelle loro tasche. Infine, spesso i consumatori si lasciano prendere la mano e finiscono per spendere più del budget che si erano prefissati.
Ovviamente non dobbiamo demonizzare totalmente né chi applica degli sconti ai propri prodotti né chi ne approfitta per acquistare qualcosa di cui ha veramente bisogno. Prima di farci ingannare da queste leve di marketing dovremmo infatti chiederci: abbiamo veramente bisogno di questo prodotto? Se la risposta è no allora lasciamo perdere, non è necessario acquistare qualcosa solo perché oggi ha un prezzo più basso e domani non più. Se la risposta è sì, invece, dovremmo chiederci: posso trovare una soluzione alternativa come ad esempio acquistarlo usato? Ci sono delle aziende che lo producono in modo più sostenibile e etico? Ci sono molte realtà che si stanno impegnando per produrre nel rispetto delle persone, degli animali e dell’ambiente. Alcune di esse decidono comunque di scontare i loro prodotti, visto che spesso hanno un prezzo non accessibile a tutti durante il resto dell’anno e visto che per queste realtà un po’ più piccole e artigianali è sempre più difficile competere con i colossi delle multinazionali; alcune, invece, contrappongono al black friday il green friday, ovvero non propongono sconti ma devolvono parte del ricavato a virtuose iniziative ambientali e sociali.
In realtà il green friday è solo il male minore in un periodo in cui i consumatori sono bombardati da continue offerte e promozioni, perché questi sconti dovrebbero essere proposti in diversi periodi dell’anno concedendo il tempo necessario a chi compra di poter riflettere sul proprio acquisto. Se non ti serve, non comprarlo.
4 agosto 2020, Beirut. Una doppia esplosione devasta il porto. 200 morti e 7000 feriti. 300’000 gli sfollati e senza una dimora a causa di questo evento. I ragazzi del Ser.Mi.G. di Bonate ci hanno parlato di quello che sta succedendo adesso.
Se già la situazione economica del Libano fin da prima dell’esplosione non era positiva, quest’evento ha reso il crollo dell’economia ancora più rapido. Si stima che nell’ultimo anno la lira libanese abbia perso l’80% del suo valore (rispetto al dollaro). Questo causa numerose difficoltà nella popolazione, come l’aumento del costo dei prodotti alimentari. Si stima infatti che entro fine anno il 60% della popolazione vivrà sotto la soglia di povertà. Il crollo è dovuto ad un sistema politico istituzionale profondamente corrotto, che già nel 2019 aveva intrapreso una serie di riforme economiche e finanziarie che avevano provocato l’impoverimento della classe media.
Tutto questo si somma all’emergenza ambientale, che già dal 2015 è denunciata dal popolo stesso. Uno dei problemi più gravi in questo senso è rappresentato dalla gestione dei rifiuti, settore in cui il Libano risulta essere uno dei Paesi meno attrezzati a livello mondiale. Ad oggi le discariche libanesi non riescono più a gestire l’ammontare di rifiuti prodotti dal paese. Un sistema di economia circolare e di riciclo non è neanche considerato e, come descritto in un rapporto di Greenpeace nel 2018, questo causa la morte di circa 2700 persone ogni anno.
Il ragazzi del Ser.Mi.G. di Bonate ci hanno raccontato cosa hanno pensato per aiutare i cittadini libanesi. Per questo Natale hanno deciso di vendere dei biglietti di auguri, con grafiche da loro realizzate, a tema Libano. È inoltre possibile fare anche solo una donazione. L’intero ricavato generato da questa raccolta fondi verrà usato per aiutare la popolazione libanese. Maggiori informazioni si trovano sulla pagina Instagram del gruppo: @sermig_bonate.
Nel centro di New York il tempo non è scandito solo dal passare dei giorni sul calendario. Sulla facciata di un grattacielo c’è un grande orologio digitale che va all’indietro: conta il tempo che ci separa dal superamento della soglia di 1,5° della temperatura terrestre. Soglia che, secondo quanto stabilito dall’IPCC dobbiamo evitare almeno fino al 2050. Inutile dire che siamo giusto un filo in anticipo, ci piace correre, a noi umani, ci è sempre piaciuto. Oggi il countdown è 7 anni.
Abbiamo poco tempo e tante cose da fare.
Un nuovo mondo da costruire, che si fondi sulla giustizia climatica e sulla giustizia sociale. Perché non possiamo risolvere la crisi climatica senza la lotta per il diritto alla salute, all’istruzione, alla parità di genere. Così come non possiamo sconfiggere il razzismo fino a quando ci saranno sfruttatori e sfruttati, fino a quando sarà vivo il sistema imperialista che persiste ancora. E tutto questo si costruisce passo passo: tanto si può fare dal basso, e oggi lo dimostriamo stando qui, ma questo non basta più. Non basterà provare a essere cittadini virtuosi se i nostri governi non lo saranno. E questo dobbiamo continuare a ricordarlo, a loro e a noi stessi.
Grazie per essere qui oggi, a tutte e a tutti voi. Ci voleva coraggio a venire, più che agli altri scioperi. Mai come ora abbiamo bisogno di questo coraggio, mai come ora abbiamo bisogno di sapere che non siamo gli unici ad averlo. E solo guardandoci negli occhi possiamo ricordarcelo, oggi come sempre.
Vorrei lasciarvi con alcune parole, chiare e semplici, che sono sicura riconoscerete. Credo possiamo farle nostre.
You may say I’m a dreamer
but I’m not the only one
I hope someday you will join us
and the world will be as one
Parigi, 5 gennaio 1986, conferenza internazionale sull’albero e sulle foreste
“Continua impunita nel mondo la distruzione della biosfera con attacchi selvaggi e assassini alla terra e all’aria. E non lo diremo mai abbastanza fino a che punto spargano morte tutti questi veicoli che vomitano fumi. Coloro che hanno i mezzi tecnologici per trovare i colpevoli non hanno interesse a farlo, e coloro che hanno quest’interesse mancano dei necessari mezzi tecnologici. Dalla loro hanno solo la propria intuizione e la propria ferma convinzione. Non siamo contro il progresso, ma vogliamo che il progresso non sia condotto in modo sregolato e nella criminale dimenticanza dei diritti altrui. Vogliamo affermare che la lotta contro l’avanzata del deserto è una lotta per la ricerca di un equilibrio fra esseri umani, natura e società. Come tale, è prima di tutto una battaglia politica, il cui esito non può essere lasciato al destino. […]
Così formulata, la nostra lotta in difesa degli alberi e delle foreste è in primo luogo una lotta popolare e democratica. Poiché lo sterile e costoso agitarsi di un manipolo di ingegneri ed esperti forestali non risolverà nulla! Né le coscienze commosse di una quantità di forum ed istituzioni, per quanto sinceri e lodevoli possano essere, rinverdiranno il Sahel, se non abbiamo fondi per scavare pozzi di acqua potabile profondi cento metri, mentre c’è tutto il denaro necessario a scavare pozzi di petrolio profondi 3.000 metri! Chi vive in un palazzo non pensa alle stesse cose, né allo stesso modo, di chi vive in una baracca. Questa lotta per difendere gli alberi e la foresta è prima di tutto una lotta contro l’imperialismo. Perché l’imperialismo è il piromane delle nostre foreste e delle nostre savane. […]
Sì, il problema della foresta e degli alberi è esclusivamente questione di equilibrio e armonia tra individui, società e natura. È una scommessa possibile; non ci tiriamo indietro di fronte all’enormità del compito e non distogliamo lo sguardo dalla sofferenza degli altri, perché la desertificazione ormai non ha più frontiere.”
Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso, ucciso il 15 ottobre 1987
Sullo striscione che abbiamo appena realizzato leggete “RECOVERY FOR THE PLANET”, una scritta che come FFF Italia abbiamo deciso di portare in tutte le piazze d’Italia. Questo perché, sulla base di un accordo europeo, all’Italia sono stati destinati 209 miliardi di euro per la ripartenza post covid. È un’occasione importante che non deve essere sprecata.
Chiediamo all’Italia e all’Unione Europea di mettere da parte il vecchio e dannoso modello economico e mettere al centro non il profitto ma le persone.
Chiediamo una vera transizione ecologica, che miri ad una decarbonizzazione entro il 2030, attraverso investimenti per le energie rinnovabili, per infrastrutture per la mobilità sostenibile e all’efficientamento energetico, togliendo per esempio i fondi del recovery plan destinati all’industria militare, ben 12,5 miliardi.
Chiediamo una giustizia climatica e sociale, ripensando lavoro, istruzione, sanità e ricerca. La salute: la pandemia ha colpito di più dove l’inquinamento era maggiore; ogni anno in Italia muoiono 83000 persone per cause legate all’inquinamento. L’istruzione: formare cittadini e cittadine consapevoli deve essere prioritario, purtroppo non ci sembra che questa sia stata la priorità negli ultimi tempi. I diritti alla salute e allo studio sono fondamentali, e non possono essere slegati da una tutela del territorio.
Chiediamo di saper agire nel e sul territorio con intelligenza e basandosi su quello che offre già, non su quello che potrebbe diventare se snaturato. Non vogliamo opere dannose e inutili come l’Autostrada Bergamo-Treviglio, e soprattutto non vogliamo che siano soldi pubblici a finanziarla.
Chiediamo che la crisi climatica venga trattata come un’emergenza qual è. Basta false informazioni, basta promesse non rispettate, basta greenwashing. Sappiamo già da anni qual è il problema e quali sono le strategie per risolverlo. Quanto tempo ancora dobbiamo aspettare?
Il recovery fund è un’occasione, non sprechiamola.
L’ultima volta che siamo scesi in piazza è stato il 29 novembre, quasi un anno fa. Oggi siamo ancora qui, sempre per sottolineare l’urgenza di una crisi, quella climatica, che non viene avvertita come tale. Nel frattempo tante cose sono cambiate e tante, purtroppo, sono invece rimaste uguali. Siamo stati, e siamo tuttora, travolti da una pandemia, imprevista anche se forse non imprevedibile. Sembra quasi surreale parlarne qui, in piazza, pensando ai mesi in cui queste stesse strade erano vuote, cupe, silenziose.
È stato detto tante volte che sapere di essere tutti attaccabili da uno stesso virus ci ha reso più consapevoli di fare parte dello stesso fragile mondo. Vero. Ma è altrettanto vero che questo non ci rende, alla prova dei fatti, tutti uguali. Non c’è una barca sola su cui stiamo: c’è chi sta in crociera e chi, invece, su una barca a remi. E c’è chi ha solo le proprie braccia per stare a galla. Questo il virus non l’ha cambiato e anche per questo siamo in piazza oggi. Siamo qui per ribadire che quelle disuguaglianze che fondavano il nostro vivere pre-covid sono sono le stesse alla base della crisi del grande ecosistema chiamato mondo.
Le pandemie non nascono per caso, né si diffondono per caso: il covid-19 è il terzo coronavirus in meno di 20 anni. Un grande campanello d’allarme su quanto le attività dell’uomo stiano stravolgendo, al di fuori del nostro controllo, gli ecosistemi. Si è parlato tanto negli ultimi tempi di “spillover” ovvero il salto di specie di un virus da un animale all’uomo nel momento in cui, in seguito a un cambiamento dei rapporti ecosistemici, vengono il contatto. E questo che è successo e che potrebbe succedere ancora.
Oggi non siamo qui nonostante la crisi sanitaria. Siamo qui anche per la crisi sanitaria, perché questa crisi e quella climatica non si cancellano a vicenda, ma si alimentano l’un l’altra
Durante il lockdown abbiamo usato, insieme a tanti altri uno slogan, attualissimo anche oggi: “non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema”. E quale era questa normalità? Ma soprattutto, ci stiamo ripiombando dentro di nuovo? A noi sembra di sì, a voi?
Con il covid non si sono fermati gli investimenti ai combustibili fossili, la deforestazione in Amazzonia non si è fermata, in California ci sono stati ancora terribili incendi, i ghiacci polari e non hanno continuato la loro fusione, fenomeni atmosferici estremi hanno colpito ancora: pensiamo a Palermo, quest’estate, o alle piogge delle scorse settimane. Solo per fare qualche esempio. Ghiacciai che si sciolgono. Per questo il 23 agosto scorso siamo andati al ghiacciaio del Gleno, in alta val Seriana, per suonare un requiem a quel che resta di un ghiacciaio che negli ultimi anni si è ritirato spaventosamente. Siamo andati qui vicino, sulle montagne che circondano Bergamo, perché è utile ricordare a tutti e a noi stessi che la scomparsa dei ghiacciai non è un problema da “orsi bianchi”. Ma è un problema che riguarda noi e vedere il vuoto dove prima c’era ghiaccio non deve e non può lasciarci indifferenti.
Veniamo ora al futuro.
Anche la ripartenza, di cui tanto si è parlato, a guardarla bene ci sembra con le gambe da gambero. Credo sappiate che i gamberi camminano all’indietro. Voi vorremmo invece una nuova rotta, che segni una svolta in nome di una ecologia radicale, di una vera lotta alla crisi climatica.
Martedì scorso il Parlamento europeo discuteva la prima legge europea sul clima, che andrebbe ad introdurre limiti nelle emissioni di CO2, in linea con il Green New Deal europeo già lanciato a febbraio. Ma se da un lato ormai è diventato normale parlare di ambiente in ogni discorso politico, dall’altro i piani di investimento (ad ogni livello) per la ripartenza sono ancora legati a logiche vecchie: una su tutte, gli investimenti sul fossile. Investire sul metano (che è fossile), sull’idrogeno o sull’elettrico, se alla base si ha comunque una fonte fossile, non è sinonimo di ripartenza green. Non è la ripartenza che vogliamo.
Questo è tornare alla vecchia normalità. E noi, indietro, non abbiamo intenzione di andare: non siamo mica gamberi.
Eni è l’azienda italiana con le più alte emissioni di gas serra, ossia la maggiore responsabile dell’emergenza climatica che viviamo, ma al posto di cambiare rotta, ha di recente presentato dei piani che non dimostrano alcuna serietà nel contrasto alla crisi climatica. Continua a nascondersi dietro spot pubblicitari tutti incentrati su una presunta transizione green che, al momento, non trova riscontro nella realtà.
Eni ha infatti rimandato di sei anni la riduzione delle emissioni di gas serra, aumentando ancora da qui al 2025 la produzione di idrocarburi (petrolio e gas), del 3,5% all’anno. Dal 2025 in poi, inoltre, non è chiaro di quanto calerà la produzione di idrocarburi. Gli obiettivi di assorbimento della CO2 saranno messi in pratica attraverso progetti di conservazione forestale REDD+, ma sono citati senza dettagli sulle realizzazioni, e attraverso tecnologie CCS (impianti di stoccaggio di CO2), su cui però ci sono molti dubbi, in termini di costi, efficienza e sostenibilità ambientale.
Dulcis in fundo, lo strapotere economico di Eni consente alla multinazionale di acquisire concessioni petrolifere ad ogni costo, anche attraverso gravi episodi di corruzione: per esempio, Eni è attualmente sotto processo (con Shell) per una presunta tangente di 1,1 miliardi di dollari pagata in Nigeria in cambio di concessioni su un giacimento petrolifero.
Investimenti sui combustibili fossili, devastazioni ambientali, corruzione, greenwashing.
Questa è Eni.
Anche per questi motivi Fridays For Future scende in piazza il 9 ottobre, per il sesto sciopero per il clima.
Per approfondire:
http://priceofoil.org/2020/09/23/big-oil-reality-check/ sui piani di investimento delle principali aziende petrolifere
https://www.greenpeace.org/…/la-strategia-del-gruppo-eni-f…/ sugli investimenti di Eni
Fridays For Future è antirazzista. Chiunque si dichiari ambientalista deve essere antirazzista.
La crisi climatica è un problema di razzismo perché il sistema che l’ha causata è razzista. Ovviamente ai fenomeni ambientali non importa nulla del colore della pelle delle persone, ma il peggioramento delle condizioni climatiche del mondo aggrava le disparità, e colpisce più duramente le persone che vivono in condizioni di povertà. Il sistema responsabile dello sfruttamento delle risorse del pianeta e dell’inquinamento tossico della nostra casa comune vive di questa disuguaglianza e i crimini contro la terra sono gli stessi che stanno distruggendo le popolazioni più deboli, le minoranze.
Come si può parlare della deforestazione dell’Amazzonia senza parlare di razzismo e ingiustizia sociale? Senza parlare dell’annientamento fisico e culturale delle popolazioni indigene che la abitano? Come possiamo parlare dei disastri ambientali legati all’estrazione dei combustibili fossili della nostra cara ENI senza considerare la politica imperialista che ancora oggi li sorregge? Tutto questo è razzismo.
Così come è razzismo pensare di risolvere il problema della mancanza di trasporti pubblici (e ci riferiamo alla vergognosa proposta avanzata nella provincia di Bergamo) scaricando le responsabilità sui richiedenti asilo di Botta di Sedrina. Il trasporto pubblico è tale solo se è per tutti, raggiunge tutti ed è alla portata di tutti. E questo non significa solo rimarcare l’inciviltà della proposta avanzata a Botta, ma si traduce anche nel constatare che il trasporto pubblico, ora più che mai, non funziona. Ed è questo il problema, ed è questo che deve cambiare. E non cambierà finché si sceglierà di finanziare con soldi pubblici un progetto inutile e soprattutto dannoso come l’Autostrada Bergamo-Treviglio.
Possiamo affrontare tutto questo solo con due salde convinzioni:
1.che la crisi climatica così come la questione razziale non sono lontane da noi, ma sono nelle nostre vite qui ed ora ed esigono risposte qui ed ora. Non serve avere paura davanti alle immagini del cielo di San Francisco se non riconosciamo i segni della crisi climatica intorno a noi: i ghiacciai delle nostre montagne che stanno scomparendo, i fenomeni atmosferici estremi sempre più forti e frequenti. Non serve indignarsi davanti agli abusi e alla violenza della polizia statunitense se gli stessi abusi e la stessa violenza non la sappiamo riconoscere nei nostri campi, nel caporalato, nella nostra coscienza sepolta nel mar Mediterraneo e nei lager libici, nella quotidiana discriminazione.
2. che solo riconoscendo l’interazione fra i movimenti che stanno infiammando il mondo in questo momento possiamo sperare di cambiare davvero le cose. Che non si può parlare di crisi sociale o di crisi ambientale, ma di crisi sociale e di crisi ambientale.
La giustizia ambientale non è diversa dalla giustizia sociale: per questo non esiste slogan più efficace e inclusivo di NO JUSTICE NO PEACE
Uno dei disegni delle magliette che qualche mese fa abbiamo realizzato insieme al laboratorio Tantemani raffigura un orso polare che si scioglie. Ci sembrava un’immagine efficace, perfettamente rappresentativa dello stretto legame fra fusione dei ghiacci e conseguenze sull’habitat, sulla vita.
Tuttavia ci siamo resi conto che pensare ai poli per figurarci il ghiaccio che scompare non è sufficiente. È importante anche saper riportare lo sguardo qui, vicino a noi, e renderci conto che anche la scomparsa dei ghiacciai montani (niente orsi polari quindi) non è solo un importante termometro di un pianeta sempre più caldo, ma anche causa di problematiche legate strettamente al nostro territorio.
Ecco perché domenica 23 agosto abbiamo suonato un Requiem al ghiacciaio del Gleno, sulle nostre Orobie, prendendo spunto da un’iniziativa che Legambiente ha iniziato l’anno scorso, e che quest’anno ha inserito nella “Carovana dei ghiacciai”, iniziative in tutta Italia per sensibilizzare sullo scioglimento dei ghiacciai montani e sulla crisi climatica.
Il ghiacciaio del Gleno, infatti, è in costante e preoccupante ritiro, sin da quando, ai primi del secolo scorso, sono iniziate le misurazioni: oggi non copre un sesto della superficie che raggiungeva un secolo fa. Eseguire il Requiem alla quota simbolica di 2300 m s.l.m., intravedendo tra la nebbia quello che resta del ghiacciaio, ritiratosi fino a 2550 m, è stato impressionante. Così come sconvolgono gli studi scientifici sul tema della crisi climatica (l’ultimo dei quali, realizzato nell’ambito del progetto In marcia per il clima, rivela che negli ultimi 50 anni la temperatura media della provincia orobica è aumentata di 2,58 °C).
Vedere orsi polari in difficoltà forse lascia indifferenti al problema del riscaldamento globale. Non è invece così semplice rimanere indifferenti ad un ambiente che cambia davanti ai nostri occhi, agli occhi di persone che il ghiacciaio del Gleno l’hanno visto, cosa che oggi, noi non possiamo più fare.
BERGAMO Tutti speriamo di esserci lasciati alle spalle la fase più difficile di questa emergenza sanitaria e stiamo attuando – ognuno secondo le proprie possibilità e competenze – quelle pratiche che consentano di contenere il contagio del virus. Tuttavia sappiamo che, anche nelle cosiddette fasi 2 e 3, il “ritorno al prima” non è possibile in tempi brevi. Questo comporta dei drastici cambiamenti anche nella mobilità urbana di ognuno di noi, con un utilizzo nettamente minore del Trasporto Pubblico Locale (bus, tram, treno), prediligendo quei mezzi che consentono il distanziamento fisico. Abbiamo due strade da percorrere: utilizzare tutti l’automobile privata e finire per intasare la città e l’hinterland di traffico, economicamente, socialmente e anche psicologicamente, insostenibile, oppure scegliere di puntare sulla mobilità a due ruote, più leggera, sostenibile, comoda e veloce in ambito cittadino.
Al fine di favorire una mobilità a misura d’uomo che permetta di vivere la città (e tutta l’area urbana che sta attorno al capoluogo) nel miglior modo possibile, l’appello denominato #Bergamoriparteinbici (link al sito) intende porre l’attenzione delle Istituzioni cittadine, comunali e provinciali e di tutti i cittadini su alcune soluzioni da attuare per una mobilità sostenibile per la Fase 2. Alcune soluzioni – già attuate in altre città d’Italia e del mondo – relative agli spostamenti urbani (nei tragitti casa-lavoro, casa-scuola, shopping, a scopo ludico e sociale…) che riteniamo utili anche nella nostra città e hinterland sono:
creazioni di ciclabili “pop-up” (dette anche d’emergenza o temporanee), mediante segnaletica orizzontale e verticale e da cantiere lungo alcune vie cittadine maggiormente frequentate (anche solo per fasce orarie definite): riteniamo siano particolarmente utili anche lungo le direttrici che collegano i comuni immediatamente confinanti alla città, come Seriate, Gorle, Torre Boldone, Ponteranica, Orio al Serio, Treviolo, Curno;
rafforzamento di Zone a Traffico Limitato (Ztl) e Zone 30 che permettano maggior sicurezza nello spostamento con mezzi meno impattanti (bici, e-bike, monopattini, roller, scooter elettrici…);
installazione di rastrelliere e stalli sicuri per il parcheggio di propri mezzi, coinvolgendo anche gli esercenti di prossimità per favorire il commercio di vicinato;
incentivo al bike-sharing (BiGi e Mobike) e allo sharing di monopattini elettrici;
sostegno ai cittadini per l’acquisto di biciclette anche elettriche (bonus bici): seppur la norma sia di competenza statale, favorire la conoscenza e l’utilizzo del cosiddetto “bonus bicicletta” per i cittadini di Bergamo che risultano avere i requisiti per poterne usufruire;
campagna di comunicazione e sensibilizzazione nei confronti della cittadinanza sulla mobilità sostenibile, in particolar modo in vista della riapertura delle scuole a settembre;
coordinamento sovracomunale riguardante le politiche della mobilità, in vista di un ritorno alla normalità in autunno. Chiediamo pertanto che tutti i soggetti istituzionali competenti prendano provvedimenti in tal senso e ci rendiamo disponibili per collaborare con tutti coloro (istituzioni, organizzazioni civiche, associazioni di categoria, singoli cittadini o esercenti…) che vogliano affrontare la questione della mobilità per vivere al meglio il post-lockdown.
Ciao a tutti ragazzi con questo episodio, inizia la nostra serie di podcast. Oggi con noi c’è Maisy dagli Stati Uniti e tra poco la conoscerete, ma prima…sigla.
Asya: Oggi con noi c’è Maisy, è un’attivista climatica dalla California negli Stati Uniti. È davvero un piacere di averti qui con noi oggi. Ciao Maisy!
Maisy: Grazie, sono entusiasta!
Asya: Sono davvero felice di avere l’opportunità di poter parlare con te. Quindi, quando e perché hai iniziato ad interessanti alla crisi climatica?
Maisy: Quando ero al mio secondo anno di liceo, ero a lezione di chimica e abbiamo fatto un’unità che riguardava il carbonio e le emissioni di CO2. Il mio professore ha spiegato che l’amministrazione Trump crede che la deforestazione sia a emissioni-zero. Secondo loro perché gli alberi assorbono la CO2 e quando vengono tagliati, teoricamente dovrebbero rilasciare la stessa quantità di CO2;ma ciò non è vero perché quando distruggi le foreste, emani anche CO2 dal terreno, dagli animali che uccidi e altro. Quindi ho pensato che potevo sfatare questo mito, che il mio Paese crede sia vero quando non lo è. E da quel momento, da quella lezione di chimica mi sono davvero interessata alla scienza, all’attivismo climatico. Nel mio penultimo anno di liceo mi sono interessata maggiormente, penso che tanta gente abbia sentito parlare dei movimenti per il cambiamento climatico grazie a Greta Thunberg; questo perché ha creato un grande movimento (ndr: Fridays for Future). Lei mi ha davvero ispirato e ho iniziato a fare maggiori ricerche, cercare altri attivisti andare alle manifestazioni. Quest’anno, in autunno, nella mia scuola sono diventata parte del movimento “Sunrise”. É un’organizzazione negli Stati Uniti, principalmente negli Stati Uniti, e si concentra sull’approvare il “Green New Deal”; che è una specie di grande sostegno per le politiche ambientali nel governo statunitense. Diciamo che io semi-gestisco il gruppo presente nella mia scuola. E questo è più o meno quello in cui sono coinvolta adesso; ho anche creato “Humans of quaranteen”. Quest’ultimo parla delle diverse storie che gli adolescenti in quarantena in tutto il mondo hanno; ho pensato che fosse carino coinvolgere gli attivisti climatici perché so quanto è difficile stare a casa, quando in verità si vuole scendere in piazza e protestare.
Asya: Il movimento di cui fai parte, il Sunrise Movement, è composto principalmente da studenti oppure è composto anche da non studenti?
Maisy: Il Sunrise Movement non è composto solo da giovani. Il movimento è composto da persone che hanno un’età massima di 35 anni. Come ho detto prima io gestisco il mio gruppo a scuola e, appunto, i gruppi Sunrise possono essere creati a scuola oppure nella tua città o anche altrove. Ma gli adolescenti ne compongono una grande parte, anche nella gestione e direzione del movimento. Questa settimana ho assistito a una videochiamata di Sunrise riguardante il Green New Deal, cosi che possiamo continuare a spingere su questo argomento nonostante questa situazione di crisi sanitaria mondiale. E c’era una forte presenza di adolescenti, credo sia davvero bello. Anche la direzione è molto giovanile e lo trovo molto d’ispirazione.
Asya: Questa lotta al cambiamento climatico è davvero d’ispirazione. So che avete molti progetti riguardanti gli attivisti presenti nel mondo e sarebbe molto bello da far conoscere alla gente. Credo sia davvero importante, ti va di spiegare di cosa si tratta?
Maisy: Certo! Io credo che la cosa bella dei movimenti riguardanti il cambiamento climatico è il fatto di essere globale, perché va a toccare ogni singola persona. Ho parlato con diversi attivisti nelle ultime settimane intervistati per “Humans of quaranteen”, che è la pagina che ho creato con mia sorella. Ho intervistato te, dall’Italia, ed è stata davvero una bella esperienza. Tu eri una delle prime attiviste che ho intervistato e da all’ora ne ho intervistati molti altri. Stavo parlando con una ragazza neo zelandese, e mi ha detto di come la loro Prima Ministra ha reagito alla crisi sanitaria in un modo molto veloce; quindi ha deciso, con il suo gruppo, che dopo la quarantena vogliono chiedere in modo maggiore di gestire la crisi climatica nello stesso modo in cui è stata gestita questa pandemia globale. Ho parlato con una ragazza che fa parte del movimento Fridays for Future e viene dalla Costa Rica. Ho parlato anche con persone che vengono dal Pakistan, dalla Lettonia, che ho scoperto essere in nord Europa. Ad essere sincera non sapevo dove fosse e ho fatto un po’ di ricerche; ho parlato con questa ragazza e mi ha detto che lei oltre ad essere interessata all’ambiente è anche interessata ai diritti per gli animali; abbiamo parlato del fatto che lei è vegana. É così bello creare un legame con persone che sembrano cosi differenti e sono da un’altra pate del mondo, ma scopri che avete qualcosa in comune.
Asya: Tu vivi in California com’è trattata la crisi climatica lì?
Maisy: É interessante. Credo che la California sia una specie di Stato a parte; è risaputo negli Stati Uniti, e forse anche in tutto il mondo, che la California è molto più progressista e quindi ha una mentalità molto più aperta. Essere un’attivista climatica in California è normale; puoi facilmente trovare persone interessate negli stessi argomenti nei quali sei interessato. Vivo in una piccola città, nonostante quello molto dei miei amici fanno parte del movimento (ndr: Sunrise Movement). Al contempo, pero, è comunque difficile essere un’attivista climatica qui; perché ci sono molti altri problemi per esempio: il fatto che il nostro governo e il nostro presidente non credono che il cambiamento climatico sia reale; il che è molto imbarazzante per noi. A causa di Trump, si è liberato questo retroscena statunitense cupo come: razzismo, xenofobia, omofobia e tutte queste cose terribili che, secondo me, le persone prima del presidente Trump non si sarebbero atteggiate così tanto. Quindi credo che molta gente negli Stati Uniti stia sottovalutando la crisi climatica perché abbiamo molti altri problemi da affrontare, o che dovremmo affrontare. Per esempio dicono: la brutalità della polizia, è molto più importante perché la gente viene uccisa, mentre il cambiamento climatico chi sa se esiste dato che non puoi nemmeno vederlo. Negli Stati Uniti c’è molto per cui lottare, infatti io non sono solo un’attivista climatica ma anche un’attivista sociale e molte altre cose. Essere un’attivista negli Stati Uniti è ok, questo perché la libertà di parola qua è davvero importante; quindi abbiamo il diritto di protestare ma purtroppo c’è molta gente che non crede nel cambiamento climatico; gli stessi che delegittimano il nostro lavoro e gli avvertimenti che stiamo cercando di dare. Mi ricordo dell’intervista che Greta Thunberg ha fatto con Trevor Noah, che è un presentatore di un Late Night Show. Lui gli ha chiesto: “come è parlare di cambiamento climatico qui – negli Sati Uniti – secondo te?” e lei gli ha risposto “è interessate, perché qua devi convincere la gente del fatto che il cambiamento climatico sia una cosa vera. Mentre se vai nel resto del mondo la gente già sa che è reale.” Ed è cosi che mi sento, sono libera di protestare ma è molto difficile perché molta gente crede che non sia vero, che non sia importante o altro.
Asya: Come la gente vede gli attivisti negli Stati Uniti? Hai detto che molti attivisti sono giovani, come in molti altri stati del mondo, ma le altre persone vi prendono seriamente oppure non ci credono?
Maisy: È uno spettro, cioè io sono un’attivista climatica, mia sorella è un’attivista climatica e molti dei miei amici lo sono. Mio papà, lui riconosce il fatto che il cambiamento climatico sia reale perché lui si interessa al nostro attivismo e alle cose che facciamo; ma lui non è interessato nello scioperare, gli piacciono le auto elettriche ma non cambierà la sua attuale macchina o la sua vita quotidiana per essere più ecosostenibile. Credo che ci siano molte persone che sanno che il cambiamento climatico è reale, ma non gli interessa. Ci sono molti attivisti radicali, che sono vegani. Quest’autunno sono andata a uno sciopero per il clima e ho incontrato molte persone che si stanno avvicinando al veganismo e che dicevano: “se non sei vegano non dovresti nemmeno essere qui. Non ne vale la pena lottare e essere un’attivista per il clima se non sei vegana, perché altrimenti non stai facendo nulla” Quindi c’è questa fine dello spettro dell’attivismo e c’è l’altra fine che sono le persone le quali non credono nemmeno che il cambiamento climatico sia reale. Direi che è molto importante essere inclusivo quando sei un’attivista. Ok qualcuno è vegano, e va benissimo così. Io non sono vegana ma sono vegetariana, a causa di problemi salutari; però faccio il possibile per non mangiare animali. Gli Stati Uniti sono un grande mix di persone che credono che il clima è cambiato centinaia di anni fa e lo sta facendo adesso. La maggior parte di noi giovani si interessa al cambiamento climatico e ai movimenti di attivismo, non so perché ad esempio io lo trovo molto interessante. Mentre le persone più anziane non sono così disposti a cambiare le loro vite. Tutto sommato è un bel movimento, tutte le persone che ho incontrato mi hanno portato tanta felicità.
Asya: ci sono altre persone nella tua famiglia che sono attivisti? Fanno parte del tuo stesso movimento?
Maisy: sì, mia sorella. Noi due siamo molto nell’attivismo, siamo andate a molte marce, lavoriamo molto insieme anche a scuola. La mia sorella più piccola, anche lei viene alle marce ma non è molto attiva, diciamo che le piace saltare scuola per andare alle marce; che comunque trova molto più interessanti. I miei genitori sono molto felici e ci sostengono, ci portano nei luoghi dove dobbiamo andare ma non credo che siano una grande parte del movimento. Ho avuto dei dibatti con mio zio; perché tutta la mia famiglia, sia da parte di mia madre che da parte di mio padre, vivono sulla costa est che è più conservatrice. Ho avuto dei dibattiti con mio zio, che ha votato Trump e lo sostiene; gli chiedevo cose come: “tu credi nel cambiamento climatico?” E lui diceva che: “io credo nel cambiamento climatico, perché il clima continua a cambiare ma non credo che sia colpa nostra”. E continuando: cosa ne pensi dell’accordo di Parigi? E lui: “Beh se guardi alle differenti maniere che gli Stati Uniti stanno implementando le auto elettriche; noi stiamo facendo molto meglio rispetto al resto del mondo.” Il che è totalmente falso, stavo parlando anche con i miei nonni e loro hanno detto: “In verità l’India e la Cina, sono gli unici che contribuiscono al surriscaldamento globale, noi (ndr:Stati Uniti) non stiamo producendo molta anidride carbonica.” E tutte cose del genere, il che è sbagliato perché dovremmo prendere le nostre responsabilità. Anche perché gli Stati Uniti sono una grande fabbrica. Quindi per me è molto difficile avere conversazioni con i miei parenti che non credono nel cambiamento climatico ed è difficile convincerli del contrario. Ma sono abbastanza fortunata che nella mia famiglia mi supportano, entrambe le mie sorelle protestano con me il che è molto divertente.
Asya: Com’è visto da parte dei californiani e degli statunitensi l’attivismo? Credi che gli Stati Uniti stanno davvero prendendo in considerazione di cambiare per il cambiamento climatico o sono piccole azioni che non sono effettivamente abbastanza?
Maisy: Credo che gli Stati Uniti, non sono pronti in nessun modo per quanto riguarda le conseguenze che il cambiamento climatico avrà sul di noi tra 10 anni. È un po’ triste, perché il nostro primo emendamento dice: “libertà di parola e d’espressione” quindi essere attivista e protestare è totalmente supportato. Ma credo che molti attivisti climatici sono liberisti o democratici, almeno quelli che conosco. Ma dato che il nostro governo attuale è molto conservatore, molto di destra; l’attivismo climatico è delegittimato e tutto il cambiamento climatico è molto delegittimato. Lo chiamano un inganno o qualcosa che i democratici stanno inventando per togliere l’attenzione dai veri problemi. Uno dei grandi argomenti, sostenuti dalla destra, sul perché il Green New Deal non funzionerebbe è perché costerebbe troppo. Ma nella realtà l’amministrazione Trump ha pagato una cifra come 100 miliardi di $ in più per le spese militari, i quali sicuramente non servivano. Ogni giorno c’è un bailout di Wall Street e le banche nel caso in cui l’economia cada, credo che i soldi siano li e gli Stati Uniti sono ricchi in molti modi; trovo molto fastidioso che la gente dica che non si può attuare perché non ci sono i soldi quando nella realtà abbiamo sempre messo soldi in qualcosa che prioritiziamo ed è molto frustante il fatto che il governo non ti supporta la 100% o non supporti la sicurezza del nostro pianeta. Alla fine di quest’anno ci sono le elezioni, quindi finalmente Trump magari non sarà più presidente. Io adoro Bernie Sanders, lui è bravissimo e stava davvero spingendo per il Green New Deal e io speravo che finalmente avremmo avuto delle leggi per la tutela dell’ambiente; purtroppo Bernie ha lasciato la candidatura e la gara per la Casa Bianca quindi la candidatura molto probabilmente sarà Joe Biden, che non mi piace per niente. Ma chiunque è meglio di Trump per me. Joe Biden, purtroppo non è molto un attivista climatico e non ha molti piani per far approvare il Green New Deal; io spero che quando Trump non sarà più il presidente spero di continuare a protestare, a domandare un cambiamento e ad aumentare l’attenzione. Però sarà sicuramente meglio protestare con i democratici che con un presidente conservatore.
Asya: ok eccoci con l’ultima domanda. Secondo te quale è il grande problema per la crisi climatica in California e negli Stati Uniti? E cosa bisognerebbe fare per risolverlo?
Maisy: Ci sono tantissimi fattori nel cambiamento climatico e altrettanti che contribuiscono ai gas serra. Per me uno dei tanti motivi sul perché la gente non supporta il Green New Deal è perché credono che serva per chiudere completamente i trasporti internazionali, come aerei o che non potrai avere delle auto a benzina. Ma quello più importante credo sia l’agricoltura sostenibile, sia negli Stati Uniti che in tutto il mondo. Noi abbiamo stati che sono completamente dedicati all’agricoltura e agli allevamenti, come mucche le quali contribuiscono molto all’aumento dei gas serra. Credo che servano molte più persone vegetariane o vegane, soprattutto se quello stile di vita fosse possibile per tutti. Sarebbe un grande cambiamento. Inoltre, preferirei che si piantassero piante native, che si utilizzino molti meno pesticidi, ma soprattutto che si coltivi in modo sostenibile. Credo che la fattoria organica sia una valida alternativa. Credo che gli Stati Uniti per questo fattore siano molto ineguali. Anche perché per contrastare il cambiamento climatico bisogna fare un forte cambiamento non si può dire: “oh qualcuno compri un’auto elettrica e qualcun altro diventi vegetariano” Dobbiamo iniziare a rendere il cibo organico più reperibile e meno costoso e questo significa che molta gente potrà permetterselo. E voi potreste chiedere: “Perché c’è così tanta gente povera negli Stati Uniti?” questo perché ci sono delle persone che detengono tanta ricchezza e tante compagnie e cose del genere. È difficile dire le due, tre cose che negli Stati Uniti potremmo fare per diminuire le emissione, è difficile e questo credo sia un altro motivo del perché la gente è contro il Green New Deal. Perché esso è un grande cambiamento di sistema, ma è necessario e prima o poi succederà. Credo sia meglio succeda adesso che dopo quando il mondo andrà a fuoco o saremo costretti a farlo.
Asya: È stato un piacere averti come ospite, grazie di aver accettato il nostro invito. Questa intervista è stata molto d’ispirazione e spero che rimarremo in contatto. Grazie ancora.
Maisy: Grazie a te! Questo è stato bellissimo!
Asya: Ringrazio ancora Maisy per essersi resa disponibile oggi, come avete sentito Maisy fa un sacco di cose fantastiche e sono stata onorata di averla come ospite. Ringrazio voi che avete seguito questo episodio fino ad adesso. Vi ricordo che potete seguirci sulle nostre pagine: instagram, facebook e sul nostro sito online. Intanto noi ci sentiamo al prossimo episodio!
Esattamente 75 anni fa, il 25 aprile 1945, il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) proclamò l’insurrezione generale in tutti i territori ancora occupati dai nazifascisti. Dall’anno successivo, questa data fu riconosciuta come giorno di festa nazionale per commemorare la Liberazione dal nazifascismo.
C’è un apparente paradosso nel 25 aprile, quello di essere una festa “nazionale” e “partigiana” nello stesso modo: per superarlo bisogna forse ripensare ai due termini, renderli “comprensibili”.
Nazionale: di tutti, al di là dell’opinione politica, il 25 aprile deve essere un riconoscimento per chi ha dato la vita per liberare l’Italia dalla dittatura, per permettere alle italiane ed agli italiani di poter esprimere la loro opinione, fede, cultura, non costretti ad un’ideologia. Per permettere a noi di rivendicare liberamente il diritto ad un presente ed un futuro di giustizia climatica e sociale; diritto che, ad oggi, non possono rivendicare le attiviste e attivisti di altri Paesi in cui le stesse libertà sono negate.
Partigiana: nel senso di “parteggiare”, di prendere posizione, non rimanere indifferenti, non essere appiattiti su luoghi comuni, su pensieri superficiali, ma riuscire ad acquisire consapevolezza, coscienza di sé e delle battaglie che vale la pena combattere.
Non sono necessarie le armi o una guerra civile per sentirsi chiamati ad essere partigiani del proprio tempo.
Nella giornata di oggi vi invitiamo a seguire le numerose iniziative, locali e nazionali, che sono state organizzate in via telematica. In particolare, sul sito 25aprile2020.it, vi sarà a partire dalle 14.30 una diretta in cui terrà un intervento anche Sara Diena, attivista di FFF Torino.
Davanti alle polemiche di coloro che ormai da tempo insidiano il valore del 25 aprile reputandolo “divisivo” o “superato”, vogliamo dire con fermezza che fino a quando l’antifascismo sarà divisivo il fascismo non sarà ancora stato sconfitto.
Il 25 aprile non è una ricorrenza. Ora, e sempre, RESISTENZA.
FFF Bergamo
Oggi, 24 aprile 2020, in tempi diversi avremmo lasciato le aule vuote e riempito le strade, le piazze, per ribadire ancora una volta l’esigenza di giustizia climatica e giustizia sociale, unendoci nel 5° sciopero globale per il clima. Oggi le aule sono vuote certo, ma anche le strade sono deserte più che mai. Non è stato semplice immaginare un modo nuovo di protesta in grado di trasferire la giornata di sciopero alla piazza virtuale, nella cui estensione incalcolabile è facile perdere consistenza. Non potevamo però rinunciare a far sentire la nostra voce, perché la crisi – sanitaria, economica, sociale – che stiamo attraversando ci pone oggi più che mai di fronte ad un’esigenza di cambiamento. Un cambiamento che deve tradursi nella lotta alla crisi climatica non solo perché questa persiste tutt’ora, ma soprattutto perché il sistema di sfruttamento e di disuguaglianze alla sua base è lo stesso che ha portato all’impatto devastante del Covid-19 sulle vite di tutti noi.
E volendo fare comunque sentire la nostra voce, anche virtualmente, abbiamo cercato di valorizzare i mezzi di cui disponiamo, “spalmando” la protesta su tre giorni: il 22 aprile era infatti la 50° Giornata della Terra, indetta dall’ONU proprio per sottolineare l’importanza della tutela ambientale. Abbiamo raccolto, e di questo vi ringraziamo, decine di foto di luoghi naturali, vicini e lontani, per sottolineare l’importanza del nostro rapporto con la Terra e le sue bellezze, dalle Orobie alle isole britanniche, dal Mediterraneo al Sudafrica. Sono luoghi speciali, da preservare, la Terra intera è da custodire. Sono luoghi che abbiamo raccolto in una mappa digitale, collocando in ogni luogo la foto che, per voi, lo rappresenta meglio.
Questa settimana è anche la Fashion Revolution Week, in cui si commemora il crollo del Rana Plaza (Savar, Bangladesh, 24/4/2013), un edificio con alcune fabbriche tessili, che ha causato 1129 vittime, 1129 persone morte a causa di un sistema lavorativo criminale. Sono stati organizzati degli eventi in tutto il mondo, modificati o rimandati a causa del Coronavirus. Oggi abbiamo voluto affiancare al climatestrikeonline una diretta sul nostro canale youtube, in cui abbiamo dialogato con diversi ospiti. Abbiamo scelto di svolgere la diretta di pomeriggio e non durante la mattinata perché, conoscendo bene le difficoltà del mondo della scuola degli ultimi mesi, non volevamo le due attività si sovrapponessero. Per questo quello di oggi non possiamo definirlo fino in fondo uno sciopero.
Nella diretta di poco fa abbiamo voluto sottolineare l’importanza del rispetto dei diritti dei lavoratori, delle lavoratrici e dell’ambiente nella filiera tessile, con diversi interventi dedicati a questo tema, tasselli preziosi per un’informazione su questo tema spesso “nascosto”. Hanno preso la parola Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti; Lorenzo Nava e Alessandra Gabriele dell’associazione Terza Piuma, Laura Di Fluri dell’associazione Humana. Abbiamo poi lasciato spazio a Elio Biffi – tastierista dei Pinguini Tattici Nucleari, band bergamasca a cui molti di noi sono legati – a cui abbiamo chiesto di raccontarci che ruolo può avere il mondo della musica e dello spettacolo nel contrasto alla crisi climatica. Infine abbiamo chiacchierato con Nicola Cremaschi, presidente di Legambiente Bergamo, una tra le più importanti e longeve associazioni ambientaliste italiane.
Abbiamo voluto, dopo tante parole, fare silenzio. Un silenzio che rappresentasse il vuoto lasciato da chi, vittima delle molteplici conseguenze e delle devastanti cause della crisi climatica, è morto. Un vuoto lasciato da chi in questi ultimi mesi è morto non solo a causa del Covid-19, ma anche degli errori, delle inadempienze e delle sbagliate priorità che hanno permesso al virus di essere così letale.
Ora vorremmo provare a riempire questo vuoto di nuova vita, sognando una normalità diversa da quella che ci siamo lasciati alle spalle. Nel rispetto di chi ci ha preceduto, di chi ci ha lasciato e di chi verrà, chiediamo che la ripartenza, la rinascita, si realizzi in nome della giustizia climatica e della giustizia sociale.
Se non sarà così, chiederemo ancora, ogni giorno, di ricominciare.
Anna Marinoni e Francesco Perini, FFF Bergamo
Spesso si parla delle energie rinnovabili, ma c’è chi non comprende a fondo i loro vantaggi a livello ambientale e socio-economico. Molte ricerche fatte da agenzie internazionali come l’IRENA (International Renewable Energy Agency) dimostrano gli enormi vantaggi che la società trarrebbe dall’utilizzo delle fonti rinnovabili. L’impatto ambientale di una conversione mondiale all’utilizzo dell’energia rinnovabile sarebbe colossale: in pochi anni si potrebbe fare ammenda dei mastodontici errori commessi, in poche parole, salvare l’umanità.
Dal punto di vista economico spesso si pensa che la dismissione degli impianti di estrazione e lavorazione dei combustibili fossili sarebbe una catastrofe per l’economia mondiale, ma non è così; infatti i posti di lavoro che si perderebbero a causa del passaggio alle fonti energetiche rinnovabili verrebbero rapidamente recuperati da quelli creati per la creazione, l’installazione, la manutenzione e la riparazione delle attrezzature per l’utilizzo delle fonti green.
Secondo un rapporto dell’IRENA, nel 2018 il settore delle energie rinnovabili ha dato lavoro a circa 11 milioni di persone, in aumento del 40% circa dal 2012 e questo trend positivo porterebbe ad avere circa 24 milioni di occupati in questo settore entro il 2024. Il velocissimo processo di innovazione tecnologica che stiamo vivendo in questi anni sta rendendo le componenti delle attrezzature per le energie rinnovabili sempre meno costose, rendendo l’acquisto e l’installazione di quest’ultime sempre più accessibile a tutti.
Se da un lato il singolo cittadino può investire nell’utilizzo delle energie green a livello domestico, dall’altro lato per vedere un cambiamento significativo a livello statale e mondiale, i governi dovrebbero incentivare l’installazione di queste attrezzature con iniziative economicamente convenienti ad esempio: incentivi fiscali e prestiti a tasso agevolato e soprattutto utilizzarle a livello statale con l’installazione di tali attrezzature negli edifici pubblici. Gli unici ostacoli a una conversione completa alle fonti rinnovabili sono gli interessi dei padroni del mercato dei combustibili fossili e la paura di investire denaro in qualcosa di nuovo senza un guadagno immediato in un periodo di incertezze economiche come quello in cui viviamo.
La domanda che occorre porsi è la seguente: arricchire persone già oltremodo ricche o salvare la nostra vita e quella dei nostri figli?
Giorgio Delprato
Nessuno di noi a questo punto della propria vita avrebbe mai pensato di dover affrontare una pandemia così immensa, eppure è la storia a ricordarci come fenomeni di questo genere accadessero ciclicamente nel passato. Ma la domanda è, perché? Perché nel corso della nostra evoluzione siamo andati incontro a grandi epidemie e perché, dopo anni di progresso medico e tecnologico, ci troviamo ancora oggi in una condizione analoga?
Le risposte a queste domande, in realtà, sono molto simili tra loro: in un passato non troppo lontano, il processo di urbanizzazione ha portato una grande concentrazione di persone a vivere nelle città; il sovraffollamento dei centri abitati, le pessime condizioni igienico-sanitarie delle abitazioni e la promiscuità con gli animali hanno creato i presupposti per una facile e rapida diffusione di malattie epidemiche. Oggi, questo stesso processo è in atto negli innumerevoli allevamenti intensivi che hanno soppiantato le fattorie tradizionali, per soddisfare l’incremento della domanda di proteine animali da parte dei consumatori. Ora, alla luce delle numerose indagini e testimonianze che hanno raccontato come grandi masse di animali siano costrette a vivere in pochi metri quadrati, il legame tra allevamenti e diffusione di malattie appare evidente.
Volendo analizzare in particolare il Coronavirus e le aziende cinesi, tra i maggiori produttori di carne al mondo, possiamo risalire all’inizio della diffusione di questo nuovo virus. Le origini del contagio sono state localizzate da varie ricerche nella popolazione di pipistrelli: la deforestazione di vasti territori, per fare posto a grossi allevamenti, ha causato un’alterazione degli habitat dei pipistrelli e le pessime condizioni igieniche delle aziende hanno favorito i contatti tra la fauna selvatica e gli animali allevati, generando un incremento dei contagi. La fine dell’era dei piccoli allevamenti ha quindi promosso la nascita di nuovi virus all’interno dei grandi allevamenti intensivi, virus ormai anche resistenti agli antibiotici, che hanno causato la propagazione di malattie zoonotiche (trasmesse dagli animali agli esseri umani) attraverso il mercato alimentare. Dopo aver analizzato il processo di diffusione del virus, è chiaro come non si tratti di un episodio fortuito, ma è frutto non solo di abitudini alimentari a forte impatto ambientale, ma soprattutto di un sistema economico che rende accettabili delle pandemie pur di continuare a trarre sempre più profitto. Il Coronavirus non è un fenomeno isolato, ma ha una sua storia, nasce in un contesto socioeconomico che non può più essere accettato da noi “consumatori”, ma che non può neanche essere più sopportato dalla nostra Terra.
C’è sempre stato un atteggiamento di immensa fiducia nei confronti della tecnica, della scienza e delle capacità dell’uomo, come se ogni difficoltà non fosse mai abbastanza per battere l’umanità, ma se fosse questo stesso uomo, di cui tanto ci fidiamo, a cui tanto ci affidiamo per superare ogni momento di crisi, ad essere la causa della situazione che ha messo in ginocchio il mondo intero?
Il 22 aprile di ogni anno, un mese e un giorno dopo l’equinozio di primavera, viene celebrata la Giornata della Terra, di cui quest’anno cade il 50esimo anniversario.
La prima Giornata della Terra è stata il 22 aprile del 1970, proposta dal senatore statunitense Gaylord Nelson, che volle dare voce ad una crescente preoccupazione pubblica per la crisi ecologica. Così, più di 200mila statunitensi scesero in piazza per combattere l’ignoranza riguardo all’ambiente e per portare alla luce le urgenti esigenze del Pianeta. Lo scopo di questa giornata era proprio quello di creare consapevolezza tra i cittadini e attirare l’attenzione politica su un tema che negli anni successivi avrebbe assunto sempre più rilievo. Nel corso degli anni Sessanta, periodo di massima crescita della popolazione, si iniziò a cogliere il legame tra l’aumento incontrollato degli abitanti e la disponibilità effettiva di risorse, ovvero il nesso tra sovrappopolazione e conservazione ambientale.
La prospettiva di queste riflessioni riguarda le responsabilità che intercorrono tra le varie generazioni rispetto allo sfruttamento delle risorse: la generazione presente può utilizzare le energie disponibili solo finché non compromette la possibilità delle generazioni future di avvalersi di queste stesse risorse; così come sostenne l’ambientalista americano Lester Brown “Non abbiamo ereditato la Terra dai nostri padri, la stiamo prendendo il prestito dai nostri figli”, rendendo esplicito il legame tra giustizia climatica e giustizia sociale.
Una prima importante presa di posizione avvenne nel 1972 con la Conferenza di Stoccolma, a cui presero parte la maggior parte degli stati membri delle Nazioni Unite per discutere dell’importanza della tutela ambientale in termini di benessere e salute umana. Nonostante si trattasse di una visione ancora antropocentrica, lontana dai principi attuali di sostenibilità, si vide un primo riconoscimento a livello internazionale della necessaria tutela ambientale. Effettivamente, il termine sostenibilità nacque soltanto negli anni Ottanta con il significato di sostenibilità umana sul pianeta Terra, non più come una subordinazione dell’ambiente al benessere e agli interessi dell’uomo.
Sarà poi nel corso degli anni Novanta che la tutela ambientale entrerà a far parte della programmazione politica vera e propria, a partire dalla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 “sull’ambiente e sullo sviluppo”. Grazie agli Accordi definiti proprio a Rio, infatti, nacque una collaborazione a livello internazionale per portare avanti degli obiettivi di tutela ambientale, troppo complessi per essere gestiti solo a livello locale. Vennero, dunque, chiariti gli obiettivi futuri, grazie alla stesura dell’Agenda 21, un programma che descrive le azioni da prendere sul piano socioeconomico e politico fino al 2021, secondo i principi di sviluppo sostenibile. Si sono poi susseguiti diversi accordi e conferenze per tutelare il pianeta Terra, ben lungi però dall’essere effettivamente realizzati (ricordiamo per esempio il fallimento della COP di Madrid il novembre scorso).
In queste settimane sembra che il problema ambientale sia ancora meno importante del solito, si arriva a sostenere come le politiche ambientali possano essere d’intralcio alla ripartenza post Coronavirus. Non è vero. Dovremo essere capaci, da singoli e da comunità, di costruire una società più bella, equa e giusta di prima, ne abbiamo l’occasione ora. Una società migliore passa necessariamente dalla cura del pianeta, dall’attenzione verso la nostra casa comune: il 22 aprile 2020 potrà allora essere l’inizio di una nuova Primavera.
Apparteniamo alla Terra. Ricordiamocelo.
Il giorno 10 novembre 2019, presso il centro sportivo di Paladina, si è tenuta 16esima edizione della fiera del tessile biologico ecologico “Per filo e per sogno”.
Si tratta di una fiera-mercato di capi di abbigliamento e articoli prodotti all’insegna della sostenibilità, con materiali biologici certificati e di riuso, arricchito da laboratori e interventi formativi dedicati al tema della moda etica e sostenibile.
L’evento è volto a rendere il compratore consapevole della stretta relazione che intercorre tra ambiente, etica e produzione.
Al giorno d’oggi siamo completamente inglobati da una realtà che ignora i processi di produzione dei grandi marchi di abbigliamento: nessuno ormai si chiede come sia possibile che alcuni capi di abbigliamento costino meno di un caffè.
Tutto ciò riguarda il mondo del “fast fashion”, ovvero la dinamica che si crea tra la velocità di produzione, che porta ad un continuo cambiamento delle mode, e il consumatore…
View original post 689 altre parole
Il giorno 10 novembre 2019, presso il centro sportivo di Paladina, si è tenuta 16esima edizione della fiera del tessile biologico ecologico “Per filo e per sogno”.
Si tratta di una fiera-mercato di capi di abbigliamento e articoli prodotti all’insegna della sostenibilità, con materiali biologici certificati e di riuso, arricchito da laboratori e interventi formativi dedicati al tema della moda etica e sostenibile.
L’evento è volto a rendere il compratore consapevole della stretta relazione che intercorre tra ambiente, etica e produzione.
Al giorno d’oggi siamo completamente inglobati da una realtà che ignora i processi di produzione dei grandi marchi di abbigliamento: nessuno ormai si chiede come sia possibile che alcuni capi di abbigliamento costino meno di un caffè.
Tutto ciò riguarda il mondo del “fast fashion”, ovvero la dinamica che si crea tra la velocità di produzione, che porta ad un continuo cambiamento delle mode, e il consumatore, che tende ad acquistare impulsivamente tutto ciò che di nuovo gli viene proposto nelle vetrine a prezzi irrisori.
Di conseguenza, la necessità di aumentare i ritmi di produzione porta le aziende ad ignorare le ripercussioni di tali processi sull’ambiente e sui lavoratori; ecco perché il legame tra ambiente, etica e produzione è inscindibile.
Dal punto di vista ambientale l’industria della moda è tra le più inquinanti al mondo, in quanto le fabbriche tessili consumano moltissima energia e di conseguenza emettono elevate quantità di gas a effetto serra. Inoltre, per ridurre i costi al minimo, i prodotti realizzati hanno una qualità sempre più scadente e conseguentemente una durata inferiore, andando a riempire le discariche di materiali non riciclabili; infatti, questi capi sono composti da un mix di più tessuti: da un lato il cotone, la cui coltivazione intensiva richiede enormi quantità di acqua e di pesticidi, e dall’altro le fibre sintetiche come poliestere e nylon, la cui produzione comporta emissioni di gas serra come l’ossido di azoto e il rilascio di microplastiche come conseguenza dei frequenti lavaggi.
Tutto ciò non è solo insostenibile dal punto di vista ambientale ma anche da quello umano, infatti queste aziende hanno delocalizzato la produzione in Paesi in via di sviluppo dove stanno letteralmente sfruttando esseri umani (specialmente donne, bambini ed adolescenti) che vengono pagati pochissimo e sono costretti a lavorare moltissime ore in luoghi che cadono a pezzi. Clamoroso è il caso del crollo del Rana Plaza, un enorme edificio situato a Dhaka (capitale del Bangladesh) che ospitava oltre che alcune fabbriche di abbigliamento, anche una banca, appartamenti e numerosi altri negozi. Nel momento in cui sono state notate delle crepe sull’edificio, i negozi e la banca ai piani inferiori sono stati chiusi, mentre l’avviso di evitare di utilizzare l’edificio è stato ignorato dai proprietari delle fabbriche tessili. Ai lavoratori fu infatti ordinato di tornare il giorno successivo, giorno in cui l’edificio ha ceduto, causando 1133 morti e migliaia di feriti.
Da ciò nasce la reazione di quelle aziende che propongono prodotti realizzati all’insegna della sostenibilità e dell’etica, e si delinea così il mondo dello “slow fashion”.
Ogni anno, in ricorrenza del crollo del Rana Plaza (24 aprile 2013) viene organizzata la Fashion Revolution Week, una settimana di eventi e campagne internazionali per informare le persone sul tema “fast fashion”.
Nel 2020 si sarebbe dovuta tenere la prima edizione di Fashion Revolution Week a Bergamo, nella settimana dal 20 al 27 aprile 2020, organizzata da La Terza Piuma e i suoi partner.
Si sarebbe trattato di una fiera di brand etici italiani che avrebbero portato i loro abiti e le loro esperienze, approfondimenti, laboratori per adulti e bambini e l’affissione dello striscione “who made my clothes” fatto dai ragazzi disabili in un punto visibile della città. Tramite Bergamo City Kiwi dovevano presenziare durante la manifestazione una serie di negozi locali da loro selezionati per l’occasione.
Vista l’impossibilità di realizzare fisicamente questi eventi per la situazione emergenziale, la FRW si terrà solamente online (tutte le attività le trovate sulla pagina Instagram @fash_rev).
Noi di Fridays For Future Bergamo abbiamo pensato di fare una diretta su YouTube con La Terza Piuma e altri esperti del settore, nel pomeriggio di venerdì 24 aprile 2020.
Scopo generale sarà la promozione dei valori collegati al segmento dell’Economia Circolare e la diffusione del principio per cui si può essere alla moda in modo etico e nel rispetto dell’ambiente.
Restate collegati sulla nostra pagina Instagram per ulteriori aggiornamenti sulle nostre dirette di venerdì 24 aprile (dalle 14 alle 17) in occasione del 5° sciopero globale per il clima (che quest’anno coincide anche con la data del crollo del Rana Plaza), non si parlerà solo di moda etica, ci saranno altri ospiti speciali a sorpresa…indizi su questi ospiti verranno dati in giornata!
Laura Bertazzoni e Alice Ravanelli
“Fashion Revolution vuole essere il primo passo per la presa di coscienza di ciò che significa acquistare un capo d’abbigliamento, verso un futuro più etico e sostenibile per l’industria della moda, nel rispetto delle persone e dell’ambiente“
Marina Spadafora coordinatrice del Fashion Revolution Day in Italia.
Elzéard Bouffier è un pastore. Conduce una vita solitaria e silenziosa “in quella antica regione delle Alpi che penetra in Provenza”, lontano dallo scorrere del tempo degli uomini e della loro Storia. Scandisce la propria esistenza con curata lentezza, la stessa lentezza che dà il tempo al germoglio di mettere radici, alle fronde di fare ombra e all’albero di farsi foresta. Ogni sera si siede al tavolo e alla luce calda di una candela separa meticolosamente le ghiande buone da quelle cattive, fino a lasciare davanti a sé cento ghiande perfette. Ogni mattina porta a pascolare il gregge; poi, giunto al luogo prescelto, inizia a piantare le ghiande una alla volta una dopo l’altra, ogni giorno. Con il passare degli anni – con il passare di due guerre mondiali per il tempo degli uomini – là dove Elzéard Bouffier semina inizia a crescere una foresta dove prima vi era il deserto. Con gli alberi – querce, faggi, betulle – torna l’acqua, tornano gli arbusti, gli animali e tornano anche gli uomini, inconsapevolmente grati ad un miracolo non di natura, ma umano.
Elzéard Bouffier non è mai esistito. Nasce dalla fantasia di Jean Giono, che nel 1953 pubblicò un breve racconto intitolato “L’uomo che piantava gli alberi”, la cui veste apparentemente autobiografica strega il lettore a tal punto da indurlo a credere che quanto raccontato sia effettivamente accaduto. Il gioco regge con particolare efficacia perché anche se non vera la storia di Elzéard Bouffier è sotto molti punti di vista senz’altro verosimile; le evidenze scientifiche così come quelle legate alla psicologia umana che si riscontrano nel racconto sono infatti numerose. L’autore sottolinea innanzitutto due ingredienti fondamentali alla riuscita della rinascita boschiva: la cura e una tenace pazienza. Il pastore seleziona attentamente i semi da piantare, sapendo che non tutti avrebbero la stessa probabilità di germogliare; dei semi piantati non tutti potranno dare vita a una pianta, date le numerose avversità che possono opporsi alla loro crescita: fattori climatici e meteorologici, l’arrivo di animali, l’azione del vento che in una pianura ancora deserta soffia senza posa.
Giono per questo scrive: “Da tre anni piantava alberi in quella solitudine. Ne aveva piantati centomila. Di centomila, ne erano spuntati ventimila. Di quei ventimila, contava di perderne ancora la metà, a causa dei roditori o di tutto quel che c’è di imprevedibile nei disegni della Provvidenza. Restavano diecimila querce che sarebbero cresciute in quel posto dove prima non c’era nulla”. Elzéard seleziona con cura non solo i semi ma anche le specie di alberi da piantare, individuando la vegetazione più adatta alle diverse zone della vallata, fattore centrale nella piantumazione: “Stava già studiando, d’altra parte, la riproduzione dei faggi e aveva accanto alla casa un vivaio generato dalle faggine. […] Pensava inoltre alle betulle per i terreni dove, mi diceva, una certa umidità dormiva a qualche metro dalla superficie del suolo”.
La tenacia di Elzéard è tale da indurlo, in nome del proprio progetto di vita, a cambiare il suo stesso mestiere e così da pastore si fa apicoltore, ben consapevole di quanto un vorace gregge possa nuocere a delle giovani pianticelle e quanto le api invece possano essere importanti alleate. La loro azione di impollinazione – oggi sempre più importante e tuttavia sempre più rara – insieme al vento, che con il crescere degli alberi si fa più docile, suggella la rinascita dei prati e dei fiori. Un altro passaggio fondamentale del racconto è il ritorno dell’acqua: “Ma, ridiscendendo al villaggio, vidi scorrere dell’acqua in ruscelli che, a memoria d’uomo, erano sempre stati secchi”. Gli alberi assorbono acqua dal terreno che, arrivata al fogliame, viene poi dispersa in atmosfera in grande quantità sotto forma di vapore acqueo: un albero, specialmente se di grandi dimensioni, più rilasciare centinaia di litri d’acqua ogni giorno. Evidente conseguenza di questo fenomeno è l’aumento di umidità e quindi anche delle piogge che, come descritto nel libro, contribuisce a ricolmare i letti di ruscelli vuoti.
Il racconto di Giono offre ancora oggi un mirabile scorcio sulla fondamentale funzione ecosistemica degli alberi, autentici e non metaforici polmoni che sostengono l’uomo non solo materialmente ma anche spiritualmente, tenendolo in vita e riportandolo alla vita. Soprattutto, mette in luce la possibilità di un sodalizio uomo-albero che possa essere davvero in grado di far nascere una foresta dal deserto. Viene quindi quasi spontaneo chiedersi se esista davvero un “uomo che pianta alberi” nel mondo; fortunatamente, all’appello risponde una persona, anche se sono certa che non sia l’unica. Jadav Payeng è un abitante dello stato indiano di Assam e, in particolare, dei pressi dell’Isola di Majuli, la più grande isola fluviale del mondo che emerge dalle acque del Brahmaputra. Nel corso degli ultimi 70 anni a causa degli effetti dei cambiamenti climatici – siccità e calore, inondazioni e erosione nella stagione delle piogge – la sua superficie si è progressivamente desertificata e ridotta del 50%. Ad opporsi alla sua inesorabile scomparsa la tenace dedizione di Jadav Payeng che da quarant’anni a questa parte ogni giorno pianta, cura, irriga: dove erano rimasti solo fango e sabbia ora sorge la “Riserva Mulai”, le cui più di cento varietà arboree ricoprono una superficie di 550 ettari e ospitano un ecosistema autosufficiente.
Davanti alla deforestazione criminale che colpisce sempre più le grandi foreste del pianeta, davanti al fumo acre degli incendi sempre più frequenti a causa dei cambiamenti climatici che devastano habitat di intere specie è difficile trovare ammirazione per la condizione umana, che sappiamo essere la vittima e insieme la radice di questa distruzione.
Per questo dobbiamo imparare ad assorbire la determinazione, l’impegno, la lenta e lungimirante tenacia delle storie che sanno raccontarci una rinascita possibile, che come Elzéard e Jadav ci facciano tornare a respirare all’ombra dei loro alberi. Solo recuperando la fiducia nell’uomo possiamo convincerci di come può essere efficace in altri campi che la distruzione. Come scrive Giono, “Quando penso che un uomo solo, ridotto alle proprie semplici risorse fisiche e morali, è bastato a far uscire dal deserto quel paese di Canaan, trovo che, malgrado tutto, la condizione umana sia ammirevole”.
Link e suggerimenti di approfondimento:
Che ruolo ha Fridays For Future (e la “coscienza ambientalista” di ogni persona) in queste settimane dove la crisi climatica sembra non esistere più?
Un’emergenza è così: avviluppa ogni notizia, non lascia parlare di altro, arriva in certi casi a giustificare scelte pericolose o miopi, prese “per il bene” del Paese… Il Coronavirus ha portato ad una crisi sociale ed economica con pochi precedenti nella storia, che ha portato le istituzioni ad assumere misure eccezionali per fronteggiare l’emergenza, misure sopportabili solo perché non sono “infinite”, ma hanno un termine, dopo il quale si ritornerà alla normalità. Ovviamente ognuno ed ognuna di noi desidera tornare, il prima possibile, alla “normalità”, ritornando a scuola, al lavoro, alla vita che vivevamo prima del Coronavirus.
Ma vogliamo solo questo? Ricominciare a vivere esattamente come prima? Tornare a quella normalità? Sono domande che ci dobbiamo porre, proprio in questi giorni strani e dolorosi, in cui ci è crollato il mondo addosso. Dobbiamo ripartire, proprio dalle macerie e dal dolore, per costruire una nuova normalità, diversa e migliore, il momento giusto è questo. Altrimenti al prossimo “giro di virus” saremo ancora in ginocchio, saremo nelle stesse condizioni di oggi: la “normalità” a cui eravamo abituati e abituate va abbandonata, va abbandonato questo perverso sistema economico e sociale, fondato sulle disuguaglianze tra le persone, sullo sfruttamento indiscriminato dell’ambiente, sull’arricchimento sfrenato di pochi (a spese di chi?).
In questo periodo si è verificata una diminuzione impressionante dell’inquinamento atmosferico, a Venezia si vede il fondo dei canali, a Napoli c’è un mare caraibico: vero. Ovviamente avremmo preferito “cambiare il sistema” in cui siamo in un altro modo, senza che questo ci fosse imposto da una pandemia. Ma, quando ripartiremo, potremo farlo anche e soprattutto con l’obiettivo di evitare, per esempio, le 83 mila morti premature all’anno (in Italia) per inquinamento atmosferico (fonte EEA). In queste settimane di clausura (clausura “attiva”) vogliamo allora chiedere una nuova normalità, a partire dagli accordi sul clima, dallo stop al consumo indiscriminato di suolo e all’inquinamento di aria e acqua, dalla sanità pubblica, da un’economia circolare…
Andrà tutto bene, sì, ma solo se non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema.
Sono giorni dall’atmosfera surreale, quelli che stiamo vivendo. L’arrivo in Italia e nel mondo dell’emergenza Covid-19, forse imprevisto ma non imprevedibile, sta innegabilmente segnando le nostre vite, come singole persone e come gruppo FFF Bergamo. L’essere gruppo, nel momento in cui l’aggregazione diventa potenzialmente un pericolo sociale, risulta improvvisamente non più scontato, semplice, limpido. L’essere studenti e studentesse, nel momento in cui scuole e università sono chiuse, si evolve in una prospettiva diversa e finora pressoché sconosciuta. Forse ciò che ci manca più di tutto in questo momento è il riscontro fisico del nostro impegno, della nostra partecipazione come attivisti e studenti: le riunioni settimanali seduti intorno ad un tavolo, i gomiti irrequieti puntati sui banchi in classe, la città viva che si muove. Sappiamo bene quanto sia forte l’immagine di un’aula che rimane vuota, perché ne abbiamo svuotate tante, negli ultimi mesi: ma era per riempire le piazze, per chiedere che ci fosse un futuro ad aspettarci oltre il suono della campanella. Ora tante piazze sono deserte e le nuove parole d’ordine – distanza, isolamento, chiusura – fanno fatica ad entrare nel nostro vocabolario di pratiche quotidiane.
Tuttavia, in questi mesi abbiamo imparato altrettanto bene come partecipare non significhi solo scendere in piazza. Si partecipa – e parteggia – anche mantenendosi vigili, attenti, informati, cercando innanzitutto di saper prendere una posizione: come sfruttare meglio questi giorni, o meglio settimane, di sospensione per trovare il tempo, che tanto spesso dimentichiamo sul comodino, per leggere? Sono innumerevoli gli spunti a cui attingere fra libri, articoli, saggi sul cambiamento climatico e il contrasto ad esso; nelle prossime settimane ci impegneremo a proporvene qualcuno. E non solo libri. In un momento in cui ci sentiamo un po’ stretti nelle nostre case, è quanto mai forte il potere dell’immagine, in grado di portarci lontano: faremo del nostro meglio per consigliarvi film, documentari, serie tv, interviste da guardare in questi tempi “divanosi”.
La caratteristica forse peculiare di un’emergenza è la sua capacità di assorbire in sé ogni attenzione, ogni discorso, ogni inquietudine. L’emergenza che stiamo attraversando in questo momento ci rende difficile il pensare oltre, come fossimo invischiati in una palude pesante che ci trascina con prepotenza nell’unica prospettiva temporale che riusciamo a vedere ora: il presente. Ed in parte è giusto così, perché questa focalizzazione è fondamentale per affrontare con sufficiente forza un problema di ordine sanitario, economico, politico, sociale il cui contrasto non è rimandabile ad un domani.
In queste settimane abbiamo visto, soprattutto in Italia, quanto la volontà politica sia determinante nel cambiamento di comportamenti e priorità. Nessuna emergenza si può affrontare in modo neutrale o scientifico: per quanto necessaria, la conoscenza scientifica non è sufficiente. Così come l’emergenza Covid-19, anche quella climatica, apparentemente più lontana ma di fatto non meno grave, richiede la volontà collettiva di ricostruire il nostro modo di vivere insieme, di essere società e civiltà. Una ricostruzione che se vuole essere risolutiva deve abbracciare una vera giustizia climatica e sociale.
Non dimenticarci dell’emergenza climatica non significa non dare importanza al presente, né minimizzare quanto sta accadendo intorno a noi. Significa tentare un passo fuori dalla palude, mantenere in vita l’attitudine forse più di tutte umana: pensare al futuro.
Un anno di Fridays For Future Bergamo: era il 19 febbraio 2019 quando alcuni studenti e studentesse di alcune scuole superiori di Bergamo hanno iniziato ad organizzare il primo sciopero studentesco per il clima a Bergamo: le prime riunioni, l’organizzazione logistica, il coinvolgimento delle scuole, le autorizzazioni, la diffusione social. Venerdì 15 marzo, il primo Sciopero, 5000 persone che dalle scuole vanno in piazzale Marconi e poi davanti al comune, per chiedere rispetto per il pianeta.
È come aver acceso un fuoco, non ci si può più fermare: al secondo Sciopero, il 24 maggio, partecipano anche indigeni di diverse parti del mondo, con testimonianze e balli, insieme per chiedere il riconoscimento dello stato di emergenza climatica, per chiedere al futuro Parlamento europeo e alle future amministrazioni cittadine, per cui si sarebbe votato due giorni dopo, politiche realmente in difesa del pianeta agonizzante. Nel frattempo anche la sensibilizzazione su temi “scottanti” del nostro territorio, insieme a comitati ed associazioni che già operavano in Bergamasca.
Il 27 settembre, all’inizio dell’anno scolastico, siamo scesi ancora una volta in piazza, per ribadire l’importanza di provvedimenti in linea con le richieste di giustizia climatica e giustizia sociale, temi inscindibili tra loro. E come per gli scioperi precedenti, eravamo idealmente insieme a tutte le altre piazze d’Italia e del mondo, da Susa a Taranto, da Dili a Toronto, da Quito a Helsinki.
E la “specializzazione”, il 29 novembre, giorno del black friday, giorno “nero” per il pianeta, giorno del più sfrenato consumismo: abbiamo voluto dire “no” a questo modello di vita suicida per il genere umano, ingiusto per chi di questo sistema è vittima (i lavoratori e le lavoratrici sfruttati/e) e per chi ne sarà vittima (le generazioni future). Meno partecipazione, vero, ma più determinazione e convinzione nelle proteste e nelle richieste.
E poi quattro giorni fondamentali, il 16 marzo, il 25 maggio, il 28 settembre e il 30 novembre, giorni in cui gli studenti e le studentesse ritornano a scuola, alla normalità della vita: sono i giorni in cui i genitori, che devono scrivere le “giustifiche”, e gli/le insegnanti, che devono firmarle, sono chiamati a riflessioni, a casa e in classe, ma in ogni luogo, sull’ambiente, su come noi genere umano stiamo distruggendo la “casa comune”, su chi ne ha le maggiori responsabilità, su chi ne subisce maggiormente gli effetti. Perché è vero, l’azione più visibile di Fridays For Future è lo sciopero, come sarà il 24 aprile, ma le azioni da fare sono quotidiane, nelle case e nelle scuole, nelle amministrazioni e nelle imprese: mantenere alta l’attenzione sulla crisi climatica è la parte più “difficile”, con incontri e laboratori nelle scuole, progetti con comitati ed amministrazioni, sensibilizzazione alla cittadinanza.
È passato un anno dalla nascita di Fridays For Future Bergamo, un gruppo “mobile” di persone, diverse ma accomunate dagli stessi obiettivi di giustizia climatica e sociale: davvero, possiamo e dobbiamo salvare il mondo, insieme.
Lorenzo Zelaschi, originario di Bergamo, si immerge fin da ragazzo nel mondo dell’arte, iniziando il suo percorso di studi al liceo artistico, per poi frequentare l’accademia di belle arti NABA di Milano. Dopo nove anni di lavoro come videomaker e graphic designer per una grande agenzia di comunicazione di Bergamo, decide di soddisfare un suo bisogno profondo: “la fame di natura”. Tutto inizia nel settembre di due anni fa, quando decide di concludere la sua precedente esperienza lavorativa e partire per un viaggio di ben tredici mesi tra India, Nepal, Indonesia, Laos e Thailandia.
sopra, Lorenzo Zelaschi
Si tratta per lui di un’esperienza, o meglio di un’avventura, che gli permette di entrare in contatto con gli indigeni e con le loro storie, e al tempo stesso con il mondo naturale: insomma, si scopre in una nuova vocazione, quella della fotografia, che risulta essere un mix perfetto tra documentazione sociale e ambientale. È proprio attraverso questi viaggi che Lorenzo Zelaschi può raccontarci il filo di pensiero che si trova alla base del suo lavoro: “Ogni luogo del mondo è diverso e presenta, giustamente, delle sfumature particolari, ma è incredibile vedere come in ogni dove siamo tutti nel profondo identici”.
Il suo percorso da fotoreporter è appena iniziato, ma subito gli arriva una nuova proposta: grazie al supporto del Centro Missionario Diocesano di Bergamo, ha l’opportunità di trascorrere i mesi di settembre e ottobre 2019 nella foresta amazzonica, precisamente nella zona della Bolivia settentrionale. Il nostro fotografo si immerge in questo nuovo mondo, lontano dai ritmi frenetici degli occidentali, dove la vita scorre libera da sovrastrutture sociali e dove le popolazioni indigene sono molto semplici, genuine e, come lo stesso Lorenzo Zelaschi ci racconta: “Di cuore!”. Si tratta di un popolo assolutamente non violento, che vive alla giornata, con leggerezza e in armonia con la propria terra. È soprattutto questa serenità che caratterizza i nativi, che permette loro di affrontare quotidianamente una crisi climatica sempre più impetuosa. Lorenzo Zelaschi, che ha potuto vedere direttamente le conseguenze degli incendi dell’Amazzonia, può testimoniare come parti della foresta siano ancora intatte, mentre vaste zone presentino roghi e incendi, spesso ancora fumanti.
Il suo prossimo progetto sarà la documentazione dell’iniziativa “Zero Plastica in Mare”, proposta da Legambiente in collaborazione con BNP Paribas, che riguarda la pulizia di spiagge, mari e fiumi italiani dai rifiuti.
Laura Bertazzoni e Alice Ravanelli, FFF Bergamo
sotto: incendi e roghi nella Foresta
sotto: scorci di Foresta
sotto: discarica a cielo aperto: a nord di Riberalta, vicino al confine con il Brasile, si apre questo scenario “apocalittico”, una vera e propria discarica a cielo aperto. Si tratta di un ammasso di rifiuti, anche ospedalieri, che esala pessimi odori e attira non solo corvi ma anche indigeni poveri.
sotto: centro smaltimento rifiuti: realtà diversa dalla precedente discarica a cielo aperto, si tratta del primo e unico centro di smaltimento di rifiuti, sempre nella zona di Riberalta.
Sabato 25 gennaio al Liceo delle Scienze umane “Paolina Secco Suardo” di Bergamo è andato in scena lo show confuso e negazionista dell’Assessore regionale all’ambiente e al clima Raffaele Cattaneo. Diverse le questioni da sollevare vista la gravità e la pericolosità delle dichiarazioni. Più di 10 classi, per un totale di circa 300 studentesse e studenti, hanno partecipato alla conferenza, la seconda sul tema, “La scienza indaga, la politica risponde?”. Il titolo sembrava mettere in discussione il ruolo della Politica pretendendo soluzioni, impressione data anche dalla lettura dei nomi dei relatori invitati, tra cui appunto l’assessore Cattaneo. Fin qui tutto bene: magari istituzioni così importanti sono pronte a mettersi in discussione, facendo autocritica rispetto a decisioni sbagliate prese in passato e proponendo innovative soluzioni per il futuro…
Purtroppo però c’è stata una vera e propria propaganda di fake news, considerazioni fantasiose, affermazioni negazioniste, spennellate di greenwashing fino ad arrivare a vere e proprie affermazioni barzelletta. Protagonista indiscusso l’assessore Cattaneo, che senza remore rispetto al ruolo che ricopre in regione e senza nessun rispetto per il fatto che si trovasse in una scuola, ha espresso le sue considerazioni in merito all’emergenza climatica. Gli studenti e le studentesse presenti, inoltre, non hanno avuto il tempo di intervenire al termine dei diversi interventi, né per porre domande né per fare osservazioni: è questo il ruolo in cui relegare chi concretamente ha messo in cima all’agenda politica del mondo la questione del clima e dell’ambiente?
Ora proviamo a prendere in analisi alcune affermazioni dell’intervento dell’assessore Cattaneo, così da mostrarne, con dati e argomentazioni, la pericolosità e assurdità delle tesi (in corsivo le parole dell’assessore)
“La Lombardia ha fatto il suo lavoro in questi anni” L’approccio del movimento Fridays For Future alla crisi climatica è proporzionale al poco tempo che resta prima di un cambiamento irreversibile dell’ambiente e dell’ecosistema terrestre: Fridays For Future si basa su autorevoli studi compiuti da decenni dalla comunità scientifica. Le azioni “virtuose” che la regione Lombardia avrebbe intrapreso si scontrano con la realtà dei fatti: i livelli di inquinamento sempre più alti e l’aumento continuo del consumo di suolo sono solo due fattori in cui la Lombardia eccelle, ma che non definiremmo positivi. La crisi climatica attuale è stata fortemente influenzata dalle attività antropiche, e non sono mai state intraprese azioni così radicali ed efficaci per fare fronte a un così grande sconvolgimento dell’ambiente: è arrivato il momento che le istituzioni si rendano conto di questa reale emergenza e intervengano attraverso azioni concrete e forti, senza pontificare sull’approccio “catastrofico” di Fridays For Future.
“il documentario Anthropocene inneggia all’estinzione dell’uomo distruttore della Terra, ha come scopo quello di guidare all’estinzione dell’uomo perché lo mette in cattiva luce” Anthropocene, l’epoca umana. È il titolo di uno straordinario film documentario che descrive, attraverso un viaggio in diverse zone del mondo, l’impatto catastrofico (questo sì, non l’approccio degli scienziati e di FFF al tema) del genere umano sul pianeta in cui viviamo. È stato realizzato in quattro anni dai registi canadesi Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier coadiuvati dal fotografo Edward Burtynsky. L’Antropocene è, secondo una definizione coniata negli anni ‘80 da un biologo statunitense, l’era geologica in cui viviamo oggi, al termine dell’Olocene: nella parola è presente il termine greco antropos, uomo, per indicare come la specie umana stia segnando indelebilmente la Terra.
Il documentario inizia con enormi cataste di zanne di elefante a cui viene appiccato il fuoco, iniziativa del governo keniota per condannare anche mediaticamente (l’evento ha avuto grande rilevanza) il bracconaggio di avorio, che minaccia gli elefanti e ha pressoché condannato all’estinzione i rinoceronti bianchi. La scena si sposta poi nella Federazione Russa, in Siberia, a Norilsk, una delle aree più inquinate al mondo a causa dell’estrazione mineraria di nichel, cobalto, palladio e platino: il dramma non è “solo” ambientale (ipotizzando l’ambiente come qualcosa di estraneo all’uomo), ma è anche umano. Gli operai vivono in condizioni pessime, le malattie e le morti a causa dell’inquinamento sono all’ordine del giorno; nonostante ciò l’azienda proprietaria dei giacimenti minerari non arresta i propri affari. Dalla Russia all’Italia, con una riflessione sullo sventramento delle montagne vicino a Carrara per l’estrazione del prezioso marmo, e da qui in Germania, a Immerath (Renania-Palatinato), dove una miniera di lignite, una qualità di carbone, si espande continuamente, non fermandosi davanti a case, chiese, campi, boschi; in questa miniera vengono utilizzati i macchinari estrattivi più grandi al mondo. Viene presentata poi una delle barriere frangiflutti in cemento, costruite dal governo cinese sul 60% delle coste, per proteggere le terre dall’innalzamento dei mari, quindi si passa in Cile, nel deserto di Atacama, prezioso ecosistema che al suo interno ha gran parte delle riserve di litio del pianeta. Tra le riprese più sconvolgenti ci sono quelle effettuate in Australia, alla barriera corallina, sempre più minacciata dall’acidificazione dei mari, causata dall’aumento di CO2 nell’atmosfera. E poi la discarica di Dandora, in Kenya, e numerose altre riprese, fino a ritornare, a conclusione del documentario, alle cataste di avorio che bruciano.
Anthropocene non è un documentario semplice, soprattutto non è un film. È la rappresentazione degli effetti che il comportamento del genere umano (e neanche tutto il genere umano, esistono maggiori e minori responsabilità) sta avendo sul pianeta. Sul nostro pianeta. Che forse è ora di iniziare a recuperare, perché la conseguenza ultima è l’estinzione della nostra specie, che si troverà a vivere su un pianeta non vivibile.
“La risposta al cambiamento climatico non può essere delegata alle istituzioni” “Servono politiche dal basso, da famiglia a famiglia” Dal titolo della conferenza – “La scienza indaga, la politica risponde?” – la speranza era che il responso non fosse “la politica può fare ben poco davanti all’emergenza climatica”. La crisi climatica non è una questione privata, così come non può essere privata né individuale la risposta ad essa. Decenni di ecologismo e ambientalismo hanno dimostrato come la sola azione dal basso, di cambiamento di coscienza, costumi, abitudini e stili di vita, per quanto necessaria non è sufficiente. Ed è con questa consapevolezza che nell’ultimo anno milioni persone sono scese in piazza chiedendo a chi ha il potere politico ed economico di agire ora. Lo stesso chiediamo a lei, assessore Cattaneo, perché sappiamo che anche lei, se volesse, potrebbe fare la differenza. La Lombardia è una delle regioni più ricche ed economicamente sviluppate d’Italia, ma questa ricchezza non sembra essere investita in una riconversione ecologica dell’industria, della zootecnia, dell’agricoltura; non sembra essere indirizzata ad una riconversione energetica; non sembra essere volta a creare una rete di mobilità pubblica sostenibile che sia realmente al servizio dei cittadini; non sembra essere al servizio alle esigenze di tutti e tutte, ma spesso è solo per pochi. Sono solo alcuni esempi di ambiti competenti al mondo politico ed economico in cui siamo sicuri che lei e le altre persone chiamate ad amministrare questa regione potrebbero e dovrebbero agire in nome di una giustizia climatica e sociale. La Lombardia è piccola se paragonata al mondo intero, così come è di modesta portata l’azione delle sue istituzioni regionali se paragonata a quella di un Paese come gli USA.
Ma vogliamo ricordarci, e ricordarle, un motto che ci ha supportato molto negli ultimi mesi e magari potrebbe esserle utile: “non si è mai troppo piccoli per fare la differenza”. Se ne è convinto un ragazzo di quindici anni che scende in piazza, perché lei non dovrebbe esserlo?
L’8 luglio 2019 il Consiglio comunale di Bergamo ha approvato la Dichiarazione di Emergenza Climatica e Ambientale, con la quale ha riconosciuto lo stato di emergenza, impegnandosi ad essere parte attiva nel contrasto alla crisi climatica in atto. Per dirla come Dalla, “l’anno vecchio è finito, ormai, ma qualcosa ancora qui non va”: i parcheggi in centro città a metà prezzo le domeniche prima di Natale nonostante la “qualità” dell’aria che si respira in città, le ennesime complicazioni ad un grande progetto inutile (il parcheggio in via Fara), il dialogo a volte trascurato con la cittadinanza riguardo a progetti nei quartieri.
Incongruenze che fanno pensare ad una direzione politica e amministrativa non coerente con quanto dichiarato e, visti i tempi che corrono, anacronistica. Lo stato di emergenza climatica non deve essere affrontato con soluzioni a breve termine, che possono solo rattoppare e non curare né far crescere una città realmente sostenibile. Rispondere all’emergenza deve significare abbracciare un orizzonte a lungo termine che abbia il suo perno nella giustizia climatica e nella giustizia sociale. Un orizzonte che deve essere condiviso e partecipato non solo dall’amministrazione, ma anche dalla società civile. È necessario dirigere le azioni amministrative in parametri delineati, anche riferendosi agli obiettivi del Patto dei Sindaci e delle Green city, a cui il comune di Bergamo ha aderito.
La crescita economica senza fine e la continua necessità di sicurezza non possono essere scuse per evitare di agire, allo stesso tempo non posso essere strumenti per un reale soluzione dell’emergenza. Troppo spesso, nel nome dell’aumento del profitto o della assidua necessità di sicurezza, si trovano soluzioni fittizie, atte solo a dare una spennellata di verde su una tela urbana sempre più grigia.
Come abbiamo ribadito più volte, il gruppo Fridays For Future non esaurisce il proprio ruolo, locale e globale, negli scioperi in piazza, ma è una presenza continua e vigile sul territorio bergamasco. Presenza che si traduce sia nel metterci in gioco in iniziative di sensibilizzazione o educazione ambientale sia nell’essere osservatori attivi, insieme a numerose altre persone e realtà, dell’evoluzione della città di Bergamo.
Il prossimo sciopero globale per il clima sarà il 24 aprile 2020: la speranza è che quel giorno potremo dire, tornati in piazza, di non essere ancora fermi al punto di partenza. È troppo tardi per permetterci di stare fermi davanti ad un mondo che brucia, che è sommerso da acqua e fango, dove l’aria si fa irrespirabile e la vita diventa impossibile. Salvare il mondo di oggi significa rendere possibile quello di domani, e per farlo l’unica via è compiere delle scelte giuste ora: come individui, come comuni, come comitati, come associazioni, come regioni e come stati.
Mettere finalmente da parte la crudele ambizione di speculare ancora sulla Terra e su chi la abita per poter dare vita ad una vera giustizia sociale e climatica.
LetTERRAtura, lib(e)ri per cambiare: la rubrica sul sito FFF con consigli di lettura, brevi commenti a libri (recenti e non), che parlano di ambiente e di crisi socio-climatica, nei diversi aspetti
Arne Naess, Ecosofia (1994)
L’ecologia profonda invoca una revisione critica del rapporto tra uomo e natura e una trasformazione radicale di tutti gli aspetti della vita umana. Ogni persona matura deve assumersi la responsabilità di elaborare la propria risposta agli attuali problemi dell’ambiente, secondo una prospettiva globale. L’ecosofia afferma il diritto universale a dispiegare le proprie potenzialità e la sua relazione con il valore intrinseco di ogni forma di vita, nell’interrelazione di tutto nella natura.
Tutte le grandi filosofie del passato darebbero un giudizio negativo sul ruolo attuale dell’umanità sul pianeta: richiedevano tutte di valutare le conseguenze a distanza delle proprie azioni in una prospettiva universale. All’origine dei problemi attuali vi è un modello di sviluppo che pone al di sopra di tutto la crescita economica ed il profitto. L’ecologia profonda utilizza la critica sociale al capitalismo, il rifiuto dell’individualismo eccessivo e aggressivo, la difesa della comunità, la solidarietà, la partecipazione, innovazioni tecnologiche sostenibili e controllabili dalle comunità, capaci di soddisfare i bisogni locali. Propone lo smantellamento dell’agroindustria, il ripristino dei sistemi agricoli basati sull’autosufficienza alimentare, la reintroduzione dell’artigianato locale, la costruzione di abitazioni con modalità tradizionali e materiali locali, la collettivizzazione dei terreni edificabili, ospedali rurali, medicina più partecipativa, sistemi energetici più sostenibili, più mezzi collettivi di trasporto, più spostamenti a piedi e in bicicletta, partecipazione, accesso alle informazioni, nonviolenza, unità di piccole dimensioni di cui tutti possono capire il funzionamento.
Il grado di autosufficienza dell’individuo e delle comunità locali diminuisce nella proporzione in cui una certa tecnica o tecnologia trascende le capacità e le risorse dell’individuo della comunità. Questo aumenta la passività, la debolezza e la dipendenza dalla “megasocietà”. La vita umana e non umana hanno un valore intrinseco, indipendente dall’utilità ai limitati scopi umani.
a cura non solo del gruppo FFF
chi volesse scrivere una recensione/un commento di un libro letto può contattarci tramite la mail fridaysforfuture.bergamo@gmail.com, specificando nell’oggetto il nome della rubrica
LetTERRAtura, lib(e)ri per cambiare: una nuova rubrica sul sito FFF, con consigli di lettura, brevi commenti a libri (recenti e non), che parlano di ambiente e di crisi socio-climatica, nei diversi aspetti
Naomi Klein, “Una rivoluzione ci salverà” (2014)
Aumento della temperatura globale, crescita potenzialmente letale del livello dei mari, perdita di ecosistemi e biodiversità, riduzione della disponibilità globale di cibo: la crescita ad ogni costo sta uccidendo il pianeta. La rivoluzione non è più una questione ideologica. È una questione di sopravvivenza.
Il cambiamento del clima potrebbe diventare una forza catalizzatrice per una trasformazione generale positiva, per la ricostruzione e il rilancio delle economie locali, per bonificare le democrazie dall’influenza corrosiva delle corporations, per trasformare il sistema agricolo malato e i servizi essenziali come energia ed accesso all’acqua, per far rispettare i diritti delle popolazioni indigene sulle loro terre, per sostenere i migranti in fuga a causa degli impatti climatici, per porre fine ai grotteschi livelli di ineguaglianza che si riscontrano tra le nazioni e all’interno di esse.
Il modo più efficace di provocare un cambiamento è lo stesso nel sud e nel nord del mondo: far emergere alternative positive, pratiche, concrete, allo sviluppo “sporco”, modelli che non chiedano una massiccia stratificazione della ricchezza, tragiche perdite culturali o devastazioni ecologiche. La dinamica che offre qualche speranza è la resistenza: movimenti di persone e di gruppi, proteste, blocchi, sabotaggi attuati da popolazioni indigene, lavoratori, attivisti, masse popolari, avamposti locali.
Ogni cambiamento sarà inutile se non verrà inteso come parte di una battaglia ampia fra visioni del mondo contrastanti, di un processo di ricostruzione e reinvenzione delle idee di collettività, comunità, beni comuni, senso di appartenenza civica e civile.
a cura non solo del gruppo FFF
chi volesse scrivere una recensione/un commento di un libro letto può contattarci tramite la mail fridaysforfuture.bergamo@gmail.com, specificando nell’oggetto il nome della rubrica
Le alluvioni a Venezia, gli incendi nella foresta Amazzonica, la crisi degli accordi di Parigi sul clima (principalmente con l’uscita degli USA, in quanto tali accordi rappresentano un “fardello economico”), il negazionismo di molti, l’inattività politica davanti alla crisi socio-ambientale: nel 2019 sono accaduti molti eventi, anche catastrofici. Ma il 2019 è stato anche l’anno delle proteste di piazza per il clima: come mai prima d’ora si sta affermando una coscienza globale riguardo alla crisi climatica, a cominciare dai più giovani.
Nel febbraio scorso, seguendo l’esempio di altre città, si è costituito il gruppo bergamasco di FFF, in vista del primo sciopero globale per il clima del 15 marzo: solo a Bergamo 2500 persone sono scese in piazza, e manifestazioni di piazza analoghe si sono svolte in moltissime altre città del resto dell’Europa e del mondo. Il 24 maggio si è svolto il secondo sciopero globale per il clima, a Bergamo in particolare con la presenza di gruppi indigeni provenienti da Canada, Messico, Australia, Brasile, preziosi testimoni della crisi socio-ambientale: in occasione del secondo sciopero, infatti, la parola “ambiente” è stata associata alla parola “società”, in quanto il problema ambientale è associato necessariamente ad un problema della specie umana.
Ogni progetto di contrasto alla crisi climatica è infatti legato ad un cambiamento radicale, dal un lato delle politiche adottate dagli stati o dalle organizzazioni internazionali, dall’altro delle abitudini di vita di ogni persona. Questo doppio piano di azione è stato sottolineato durante il terzo sciopero globale, il 27 settembre (il più partecipato in assoluto), ma ancora di più durante il quarto, il 29 novembre, giorno del black friday, giorno “nero” per il pianeta (in termini di costi ambientali e sociali), ribattezzato block friday, giorno da cui si inizia ad essere consapevoli che ogni singola azione, anche l’acquisto di una maglietta, ha un impatto sull’ambiente e sulla nostra vita, perché dietro ad ogni oggetto c’è un costo, materiale, ambientale, umano.
Ricordare che la crisi socio-ambientale riguarda le persone (in quanto esse stesse parte dell’ambiente) è il primo passo per ammettere come le diverse popolazioni del mondo siano colpite dalla crisi in maniera differente le une dalle altre, e per la maggior parte dei casi chi è responsabile della crisi socio-ambientale non ne è (per il momento) colpito; al contrario, le popolazioni più colpite dagli effetti della crisi climatica non sono quelle che l’hanno causata.
La parola d’ordine dell’anno FFF è stata “emergenza”: da un lato per portare l’attenzione sulla crisi socio-ambientale in atto, dall’altro per chiedere alle istituzioni prese di posizione ed azioni immediate. È con la parola “emergenza” in mano che il 2 dicembre si è aperta la COP25 di Madrid, la conferenza degli Stati aderenti ai Trattati di Rio del 1992 (e firmatari degli accordi di Parigi del 2015); dopo due settimane di negoziati, però, l’emergenza è diventata acquiescenza, arrendevolezza, e ogni decisione è stata rimandata alla COP26 di Glasgow. La COP di Madrid, emblematica conclusione del 2019, ha evidenziato l’enorme scollatura tra le proteste di piazza (fondate sulle allarmanti relazioni della comunità scientifica) e il tavolo dei decisori politici, evidenziando come la strada per affrontare la crisi socio-ambientale sia ancora lunga.
Il 2020 deve essere l’anno della svolta, personale, comunitaria, globale: non c’è davvero più tempo.
Buon anno!
il gruppo FFF Bergamo
Vi auguro sogni a non finire e la voglia furiosa di realizzarne qualcuno.
Vi auguro di amare ciò che si deve amare e di dimenticare ciò che si deve dimenticare.
Vi auguro passioni, vi auguro silenzi.
Vi auguro canti d’uccelli al risveglio e risate di bimbi.
Vi auguro di rispettare le differenze degli altri perché il merito e il valore di ognuno sono spesso da scoprire.
Vi auguro di resistere all’inerzia, all’indifferenza e alle virtù negative della nostra epoca.
Vi auguro infine di non rinunciare mai alla ricerca, all’avventura, alla vita, all’amore
perché la vita è un’avventura magnifica e nessuno che sia ragionevole deve rinunciarvi
senza combattere una dura battaglia.
Vi auguro soprattutto di essere voi stessi, fieri di esserlo e felici,
perché la felicità è il nostro vero destino.
Jacques Brel
Si è conclusa la COP25, la Conferenza delle Parti (gli stati che hanno ratificato gli Accordi di Rio del 1992) sul clima, indetta dall’ONU dal 2 al 15 dicembre. La Conferenza, inizialmente prevista a Santiago del Cile, poi spostata a Madrid a causa della drammatica situazione cilena, avrebbe dovuto trattare i seguenti temi: energie rinnovabili, mobilità, estrazione mineraria, economia circolare, oceani e foreste, agricoltura, città sostenibili, infrastrutture, finanza climatica. Altri nodi da sciogliere erano la modalità di attuazione dell’articolo 6 dell’Accordo di Parigi, lasciato in sospeso dalla COP24 dello scorso anno a Katowice (Polonia), riguardante il “mercato del carbonio” (in breve, le riduzioni delle emissioni operate da uno Stato nel territorio di un altro Stato non possono essere conteggiate da entrambi i Paesi) e il sostegno ai Paesi più poveri nella lotta all’emergenza climatica. Il 28 novembre, inoltre, il Parlamento europeo ha approvato una “Dichiarazione di Emergenza Climatica e Ambientale”, chiedendo ai rappresentanti dell’Unione alla COP25 di presentare una strategia per la neutralità climatica entro il 2050.
La COP25 si è conclusa però con un nulla di fatto, evidenziando l’enorme distanza tra le richieste dei movimenti ambientalisti (tra cui Fridays For Future) e gli effettivi risultati delle grandi conferenze sul clima. La “fumata nera” (carbone) con cui gli Stati si sono dati appuntamento a Glasgow (Scozia) per la COP26 spaventa: sono mancati coraggio e volontà per decidere anche solo degli obiettivi (per non parlare poi di azioni). L’appello conclusivo invita semplicemente gli Stati a fare “sforzi più ambiziosi”, evidenziando il pressoché totale fallimento della Conferenza e l’ipocrisia con cui la crisi socio-ambientale viene trattata. L’unico piccolissimo risultato ottenuto riguarda l’introduzione dell’obbligo, per i Paesi ricchi, di indicare, a Glasgow, di quanto aumenteranno gli impegni per tagliare le emissioni.
Gli studi, le ricerche, le proteste, le richieste di azioni immediate sono state criminosamente ignorati; ci sono persone che oggi, oggi, muoiono a causa della crisi climatica, e ancora manca una strategia globale di sostegno ai Paesi poveri, un cambiamento radicale di sistema economico e un contrasto effettivo alla crisi socio-ambientale. Dopo i quattro scioperi globali ce ne saranno un quinto, un sesto, un settimo, ci sono e ci saranno iniziative di richiesta, educazione e protesta.
Non ci arrenderemo mai, abbiamo appena iniziato.
Bergamo, via XX settembre, 29 novembre 2019
Il nostro primo pensiero, qui, va alle persone colpite in queste settimane da alluvioni, in Veneto, Liguria, Piemonte, Basilicata: ricordarle oggi è importante, non dobbiamo chiudere gli occhi davanti agli effetti della crisi climatica, dobbiamo acquisire consapevolezza. Il modo più rispettoso e coerente per onorare le vittime innocenti è operare per il ripristino di equilibri ambientali sostenibili, per ridurre il rischio idrogeologico e per elevare gli standard di sicurezza, nelle aree rurali come in quelle urbane. A loro va il nostro augurio e il nostro applauso.
Che cos’è il Black Friday? Una giornata che porta la gente ad acquistare non per necessità ma così, tanto per… Nelle vetrine e sulle pagine web giganteggiano occasioni imperdibili, prodotti stupefacenti, ma soprattutto cose nuove: siamo in una società sempre alla ricerca del nuovo, dell’ultimo modello, dell’appena uscito, sempre a discapito del vecchio, della “cosa che si aveva prima”. Siamo inseriti in un sistema consumistico che produce danni dalla sua origine alla sua fine: da un lato vengono continuamente estratte materie prime, da lavoratori e lavoratrici spesso sfruttati, ci sono il consumo continuo di risorse idriche e l’inquinamento chimico di aria e acqua; dall’altro, la mole impressionante di rifiuti, di scarti di produzione, di prodotti usati, inutilizzabili o semplicemente “fuori moda”, ormai troppo vecchi per rimanere sul mercato, tutta “roba” che deve essere smaltita, a che costi per l’ambiente?
Ecco perché siamo scesi in piazza: abbiamo cambiato una vocale, da Black friday, venerdì nero per il pianeta, a Block friday, blocchiamo questo venerdì di lutto per il pianeta: Block friday è innanzitutto una riflessione ed una presa di posizione contro questo modello di consumo lineare, che produce emarginazione, rifiuti, schifo, senza che nemmeno magari noi ce ne accorgiamo. Comprare a basso costo cose che probabilmente verranno usate una sola volta nella vita, sì, ma a che prezzo per le persone e l’ambiente? (persone e ambiente sono ovviamente legati a filo triplo tra loro). Siamo istintivamente spinti ad approfittare di queste offerte, senza pensarci troppo: ma veramente desideriamo, cioè sentiamo la mancanza, non possiamo fare senza, queste cose? Essere in piazza oggi vuol dire volersi e volere rieducarsi ad un’attenzione verso il nostro consumare, verso il nostro vivere.
In questa giornata però vogliamo ricordare anche la COP25 di Madrid, dal 2 al 13 dicembre, ovvero la 25esima edizione della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici; decisori politici provenienti da tutto il mondo si incontreranno per discutere come contrastare la crisi climatica. Fino ad ora i risultati delle COP precedenti non sono stati sufficienti, 4 anni dopo la firma dell’Accordo di Parigi, le promesse che sono state fatte devono ancora trasformarsi in azioni.
Non bisogna più pensare a cosa è politicamente possibile fare, ma a cosa è necessario fare.
Non permetteremo a noi stessi e al mondo di tornare nel torpore: il sonno delle coscienze genera mostri, e noi siamo invece in cerca di sogni, per il nostro futuro e quello della Terra.
Lisa Corti e Francesco Perini, FFF Bergamo
Abbiamo parlato in più occasioni della Terra dei Fuochi, concentrando la nostra attenzione sui rapporti sociali delle persone che vivono lì, e dello straordinario coraggio degli attivisti e delle attiviste che da anni lottano per chiedere una vita dignitosa; è emerso che la militanza non può essere “part time”, e che spesso “costa” tanto in tanti aspetti della vita; abbiamo ascoltato docenti universitari di Rio de Janeiro, Stoccolma e Boston a proposito di giustizia sociale e di gentrificazione; ricorderemo sicuramente, nelle nostre attività, la situazione, sociale, ambientale, politica ed economica dell’Ilva di Taranto; abbiamo riflettuto sul ruolo del femminismo anche come “fare rete” per riconquistare i luoghi del vissuto quotidiano, i “beni comuni”; attivisti e professori hanno portato esempi di movimenti urbani, di politiche cittadine e di associazionismo per fronteggiare la crisi climatica (non chiamiamolo cambiamento!); nel dibattito conclusivo alla scuola di formazione si è parlato del difficile rapporto tra ambiente e lavoro, di quanto queste due componenti della vita umana siano così “sacre”, ragionando anche sull’idea moderna di “benessere”, è davvero poter andare al supermercato alle 3 di notte per comprare una banana?
Si è parlato molto dell’epoca in cui viviamo, definita da molti “Antropocene”. L’enciclopedia Treccani lo definisce così: “l’epoca geologica attuale, in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene fortemente condizionato su scala sia locale sia globale dagli effetti dell’azione umana, con particolare riferimento all’aumento delle concentrazioni di CO2 e CH4 nell’atmosfera”. La sfida che raccogliamo da Napoli, la sfida lanciata a tutti e tutte, è quella lanciata da Alex Langer (negli anni ‘80!) sulla conversione ecologica (parola che indica consapevolezza, riparazione del danno e svolta nei comportamenti): “di fronte alla malferma salute della biosfera”, scriveva, “le scelte che fanno bene al pianeta sono per forza di cose anche scelte che fanno bene a noi stessi (…). È sacro egoismo tra i meglio investiti”. Antropocene non sarà più sinonimo di “benessere” (la banana h24), ma indicherà una nuova attenzione verso il genere umano, verso ogni singola persona, verso la nostra casa comune, la terra.